Stupri di guerra e machismo, in Congo e non solo

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L’ala femminile della prigione Munzenze a Goma, nella Repubblica democratica del Congo (vedi qui), di recente è stata data alle fiamme, causando la morte di più di centocinquanta delle centosessantacinque donne presenti all’interno. Prima di morire tra fumi neri e densi, tutte le detenute erano state stuprate dagli uomini evasi, liberati dai combattenti del Movimento 23 marzo (M23), il principale dei gruppi armati presenti nella regione. Fondato nel 2009, l’M23 contribuisce all’instabilità nell’est del Paese, ormai da oltre dieci anni. Il movimento, sostenuto dal Ruanda (anche perché composto in parte da tutsi congolesi), era stato sconfitto dalle Forze armate della Repubblica democratica del Congo (Fardc) e dai caschi blu della missione delle Nazioni Unite (Monusco), per poi tornare nel 2021, intensificando dal 2022 le incursioni nel Nord Kivu. A riferirlo, è stato l’Ufficio per i diritti umani dell’Onu, denunciando le condizioni catastrofiche in cui versa la popolazione civile nelle regioni orientali del Paese.

Nonostante il portavoce dell’M23, Corneille Nangaa, avesse promesso agli abitanti la stabilità – “vi chiedo di dormire bene perché vi portiamo la sicurezza, dalla prossima settimana i bambini torneranno a scuola”, diceva –, la situazione non è affatto migliorata. Le violenze hanno portato a un aumento significativo degli sfollati interni, con oltre sette milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case. A essere particolarmente vulnerabili, le donne, che non solo affrontano condizioni di vita precarie nei campi profughi, con carenze di acqua potabile, cibo e servizi igienici, ma sono isolate e dislocate, rischiando continuamente di essere vittime di abusi.

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Da quando si sono intensificati gli scontri tra i ribelli dell’M23 e le truppe regolari congolesi, sono state denunciate alle autorità oltre duecento violenze sessuali solo nella regione del Congo orientale. Tra le difficoltà per raggiungere un luogo sicuro, le sfide quotidiane di sopravvivenza e lo stigma sociale che circonda chi ha subito abusi, si calcola che il numero effettivo possa essere addirittura triplicato. Sono anni che crescono gli episodi di violenza di genere nell’area. Secondo l’Unicef, le segnalazioni nel Nord Kivu sono aumentate del 37%, nei primi tre mesi del 2023, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nel 2022, sono stati segnalati oltre 38.000 casi di violenza di genere nella provincia: la maggior parte dei quali, secondo le agenzie internazionali, perpetrati da uomini armati, spesso all’interno dei campi profughi.

La condanna della comunità internazionale si scontra però con le politiche degli scambi commerciali. Gli interessi sono così ramificati da rendere impossibile una presa di posizione chiara. Uno degli aspetti più critici del conflitto, infatti, è il sostegno del Ruanda all’M23. Il Paese viene considerato dagli occidentali “sicuro” – tanto da essere stato il partner di un accordo migratorio con il Regno Unito, in seguito venuto meno –, ed è un grande esportatore di coltan, di rame e di oro a livello globale. Peccato che la quantità di risorse commerciata sia molto maggiore di quella presente nel territorio, quindi evidentemente collegabile al traffico illecito svolto dalle bande armate nel vicino Congo. Così, l’anno scorso, il Ruanda è risultato il primo esportatore al mondo di coltan.

Nonostante il governo di Kinshasa abbia accusato ripetutamente Kigali di armare e supportare i gruppi armati nei propri confini – e diversi rapporti dell’Onu abbiano confermato il coinvolgimento del Paese limitrofo –, il governo ruandese continua a negare. La posizione dei Paesi occidentali, spiegata da Luciano Ardesi (vedi qui), è neocoloniale. Denunciano le violenze contro i civili congolesi, ma nello stesso tempo foraggiano direttamente e indirettamente i gruppi terroristici ribelli, capaci delle peggiori atrocità. Aziende e intermediari preferiscono arricchirsi, e si fingono ignari della loro collaborazione con le milizie armate, così continuando a produrre quei dispositivi elettronici o quei cosmetici che in Occidente usiamo quotidianamente.

“L’entità delle violenze sessuali legate ai conflitti è una caratteristica spaventosa nell’est della Repubblica democratica del Congo da decenni” – ha dichiarato Jeremy Laurence, portavoce dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk. Eppure, leggendo le notizie legate all’atroce evento di stupro e poi di mattanza cui abbiamo fatto riferimento, se ne ricava l’impressione di una eccezionalità, legata alla regione geografica in cui è avvenuto, che lo allontana dalla nostra realtà. Bisogna invece ricordare che il rogo di centocinquanta donne non è che uno degli episodi atroci tra quelli che affliggono le persone in situazioni di guerra a ogni latitudine. Non solo nella Repubblica democratica del Congo, infatti, lo stupro viene usato come arma. Dallo storico “ratto delle sabine” da parte dei romani, fino alle truppe giapponesi a Nanchino nel 1937, ovunque e in qualsiasi epoca mogli, madri, sorelle e figlie hanno portato il peso dell’abuso sulla loro pelle.

Solo negli anni Novanta del Novecento, lo stupro fu ufficialmente perseguito come crimine contro l’umanità e crimine di guerra da parte della Corte penale internazionale dell’Aia. L’episodio scatenante fu la guerra nei Balcani, negli anni Novanta, durante la quale la pratica venne utilizzata sistematicamente come arma di pulizia etnica. Si stima che tra ventimila e cinquantamila donne, prevalentemente bosniache musulmane, siano state violentate nell’intento di smantellare un’intera comunità. “Usano i nostri corpi come campo di battaglia” – ha detto Nadia Murad, un’attivista irachena yazita, premio Nobel per la pace nel 2018, vittima lei stessa di violenza da parte dell’Isis: “Non è solo un attacco a noi, ma un attacco alle nostre comunità, un modo per annientarci”. Uccidere a volte non è soltanto versare sangue, ma anche spegnere la vitalità negli occhi delle donne.

Dove ci sono affari, sopraffazione, armi e violenza, ci sono persone sottomesse, inermi davanti alla furia dell’uomo. E ovunque, purtroppo, vi è ancora l’idea patriarcale del possesso: la donna è di qualcuno, ed è quindi usata per ferire in modo implicito l’avversario. Non è un caso che gli stupri vengano spesso associati ai saccheggi nei manuali di storia. Come oggetti di proprietà, non avendo alcuna “agentività” personale, vengono usate, scambiate, vendute e utilizzate. Così milioni di donne cadono sotto la furia di violenze oscene, rischiando anche la tratta. Dislocate senza conoscere la destinazione, separate dai propri cari per essere schiave di chi, per sorte, possiede più di loro.

Lo stupro non è una questione puramente sessuale, quanto un’espressione di puro potere e controllo, un’arma per degradare profondamente una persona, con l’intento di privarla di ogni dignità. Abbiamo visto come sia utilizzato anche nelle prigioni israeliane contro uomini detenuti. Viene usato contro le categorie che, come teorizzava Carla Lonzi, spaventano il patriarcato – le donne, le ragazze, i giovani –, per spezzarne la vitalità. La femminista Gloria Steinem ha usato il termine “genocidio psicologico” per spiegare l’uso sistematico dello stupro come forma di dominazione.

In maniera analoga a ciò che ha palesato il #metoo di Hollywood, è l’uomo accecato dal potere, e purtroppo realmente nella situazione di rivestire una qualche autorità, che si sente nella posizione di possedere un’altra persona senza il suo consenso. Se il potere poi è acquisito con produzioni cinematografiche di successo, poco cambia. Ricordiamo che Silvio Berlusconi foraggiava la prostituzione minorile, e che l’attuale presidente degli Stati Uniti è stato condannato per avere pagato sottobanco una pornostar per prestazioni sessuali. Se vengono messe in discussione le denunce delle star da tappeto rosso, è ancora più difficile che si presti ascolto alle donne sfollate del Congo. Nella violenza di genere è intrecciato anche il razzismo, sia esterno sia interiorizzato. Se la donna è considerata “il nero del mondo”, essere donna, e al contempo africana o afrodiscendente, espone a un rischio terribilmente elevato.

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La piega machista che ha preso la politica occidentale sminuisce questi eventi: li normalizza o, peggio ancora, li riconduce a un’ottica razzista. Anziché stigmatizzare l’Africa centrale come luogo di violenza, allontanando questi eventi drammatici dalla nostra realtà, dovremmo interrogarci sulla cultura patriarcale e sulla militarizzazione della nostra stessa società: qualcosa che trascende i confini geografici. La normalizzazione della diffusione delle armi, per esempio, contribuisce implicitamente alla perpetuazione della cultura dello stupro e della violenza di genere. Anche in Europa, dove assistiamo alla crescita di soggetti maschili insoddisfatti – i cosiddetti “incel” – che nutrono un profondo disprezzo per le donne. Con il pretesto di difendere un presunto status quo, non si fa altro che alimentare queste pericolose dinamiche.



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