Pubblichiamo la relazione dal presidente Ermanno De Francisco per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio di Giustizia Amministrativa Regione Siciliana, che si è tenuta lo scorso 7 febbraio nella nuova sede del CGARS di Villa Belmonte a Palermo, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del Presidente della Regione Sicilia on. Renato Schifani e del Presidente del Consiglio di Stato avv. Luigi Maruotti.
1. Signor Presidente della Repubblica,
è con grande emozione che Le porgo, personalmente e a nome di tutti i magistrati del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, il più cordiale benvenuto e i più vivi e sentiti ringraziamenti per aver accettato il mio invito, concedendoci l’onore della Sua presenza; la quale dà grande lustro e particolare prestigio a questa nostra cerimonia, che altrimenti non sarebbe stata tal quale oggi è.
Saluto e ringrazio anche il Presidente della Regione siciliana, il Presidente dell’Assemblea Regionale siciliana, le Autorità intervenute, il Presidente del Consiglio di Stato e i componenti del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, i Colleghi di questa e delle altre magistrature, gli Avvocati dello Stato, degli enti pubblici e del libero Foro, gli esponenti dell’accademia, il personale della Giustizia amministrativa e tutti coloro che partecipano a questa cerimonia.
Un saluto particolare desidero rivolgere ai componenti emeriti del Consiglio di giustizia amministrativa e a tutti coloro che, a causa della limitata capienza di questa Aula d’udienza, sono con noi in altre sale di questa nostra nuova e splendida Sede.
2. Quella di oggi è una giornata storica per la Sicilia, perché si celebra per la prima volta la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario dell’organo supremo della giustizia amministrativa di cui questa Regione, unica in Italia, è dotata.
Istituito dall’art. 23 dello Statuto speciale della Regione siciliana, approvato con R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455 – sussunto tra le leggi costituzionali della Repubblica dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 – il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana costituisce, infatti, una delle più accentuate peculiarità caratterizzanti l’autonomia di cui gode la Sicilia, non esistendo né essendo previste in Italia altre sezioni staccate del Consiglio di Stato.
Anche la Corte Costituzionale – per respingere, con sentenza 4 novembre 2004, n. 316, alcune questioni sulla natura e sulla struttura di questo Consiglio – ha anche valorizzato il fatto che «il decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali, sancito in via di principio dal citato art. 23, corrisponde ad un’antica tradizione siciliana, che non si limita all’esperienza della Corte di cassazione di Palermo prima dell’unificazione del 1923, ma addirittura risale all’ordinamento del Regno delle Due Sicilie, con l’istituzione in Palermo di supremi organi di giustizia distinti da quelli omologhi con sede a Napoli. L’art. 23 contiene dunque un principio di specialità, che riafferma, anche se in termini generici ed atecnici, per di più formulati anteriormente alla redazione del testo costituzionale, un’aspirazione viva, e comunque saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali».
3. Le molteplici dominazioni straniere che nel corso dei secoli si sono succedute in Sicilia hanno sempre dovuto rispettare la specifica identità dell’Isola che, pur avendo assimilato elementi tipici della cultura fenicia, greca, romana, bizantina, araba, normanna e spagnola, ha però sempre mantenuto salde le proprie tradizioni, tanto da conquistarsi il privilegio di avere i propri magistrati per ogni stato e grado di giudizio, già molto tempo prima di essere annessa al Regno d’Italia.
Un privilegium fori – che affonda le radici nella prospettiva sicilianocentrica del Regno normanno – concesso alla Sicilia dal sovrano aragonese Alfonso il Magnanimo, già intorno alla metà del XV secolo; sicché sin dai suoi albori il Regno delle due Sicilie conobbe, per la gestione del contenzioso contabile e amministrativo, un sistema giudiziario caratterizzato da una duplice Gran Corte, a Napoli per la parte continentale del Regno e a Palermo per la Sicilia.
L’art. 23 dello Statuto regionale siciliano è stato, dunque, il risultato di una lunga storia, in cui il privilegium fori si è tramandato nei secoli – quasi senza soluzione di continuità – dalla metà del millequattrocento fino ai nostri giorni, realizzando così una più autorevole presenza dello Stato nell’Isola per le esigenze considerate dal legislatore costituente del 1948, le quali, nonostante il tempo trascorso, appaiono ancor oggi attuali: tra esse rileva, soprattutto, il peculiare sistema delle competenze legislative e amministrative regionali stabilito dallo Statuto siciliano([1]).
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana è, da un lato, custode e garante delle prerogative statutarie della Sicilia rispetto a possibili ingerenze indebite; ma, d’altra parte e non certo secondariamente, il Consiglio è altresì presidio, in Sicilia, dell’unità dell’ordinamento giuridico nazionale, così concorrendo a tutelare il fondamentale principio di unitarietà della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost., che, come bene costituzionale supremo, va comunque preservato e garantito anche nella prospettiva regionale dell’aspirazione verso le autonomie locali e il decentramento.
Perciò questo Consiglio, quale giudice di ultima istanza, svolge anche la delicata funzione di assicurare l’attuazione in Sicilia del diritto europeo, senza che la speciale autonomia siciliana possa pregiudicare l’uniforme applicazione della disciplina sancita dall’Unione Europea nei settori di sua competenza.
Ebbene, credo di poter dire che il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana abbia dimostrato negli anni di svolgere bene il suo ruolo di garante dell’unita giuridica nazionale, anche rispetto al più speciale degli statuti regionali([2]).
Pur se, in un primo momento, erano sorte alcune perplessità circa l’opportunità dell’effettiva attuazione dell’art. 23 dello Statuto regionale siciliano, il legislatore nazionale ha sempre creduto e investito nel Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana emanandone la disciplina attuativa, dapprima con il D.Lgs. 6 maggio 1948, n. 654([3]), e da ultimo con il D.Lgs. 24 dicembre 2003, n. 373.
Merita sin d’ora evidenziarsi che tali norme di attuazione dello Statuto regionale integrano una fonte del diritto di rango c.d. sub costituzionale, o super primario, sicché sono idonee a prevalere gerarchicamente sulla legislazione ordinaria, anche posteriore.
4. Non spetta a me indagare le ragioni per cui l’art. 23 dello Statuto siciliano sia stato positivamente attuato per le giurisdizioni superiori amministrativa e contabile, ma non anche per quella ordinaria; ciò che, in questa mia veste odierna, certamente invece mi compete è riscontrare che, per quanto concerne la giurisdizione amministrativa, l’art. 23 dello Statuto regionale siciliano deve oggi considerarsi pienamente attuato.
In proposito va infatti dato atto che, quantomeno dopo il riassetto operato dal cit. D.Lgs. n. 373 del 2003, non può esserci alcuna ragione per dubitare – come s’era invece dubitato in passato – della piena conformità alla normativa di rango costituzionale delle modalità con cui è stata data attuazione al ridetto art. 23 dello Statuto siciliano: come ha confermato anche la succitata sentenza della Corte costituzionale, n. 316 del 2004, che ha respinto tutte perplessità che erano state sollevate dal remittente.
È proprio in tale contesto normativo che il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana rinviene il fondamento della propria esistenza e la giustificazione delle speciali prerogative giurisdizionali e consultive di cui è titolare.
Ritengo che sia frutto anche di questa maturata consapevolezza l’ulteriore riconoscimento formale, ottenuto quest’anno dal Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa – che ringrazio per l’attenzione che ha così inteso dimostrarci – dell’istituzione, anche per noi, di questa cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario.
Cerimonia che, in effetti, tralatiziamente si celebra non solo presso ciascun Tribunale amministrativo regionale, ma anche presso tutte le relative sezioni staccate (che sono nove in Italia, una delle quali in Sicilia); sicché non sarebbe agevole spiegarsi perché non anche presso questa unica “sezione staccata” del Consiglio di Stato.
Invero, pur essendo composto da sezioni staccate del Consiglio di Stato, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana è contraddistinto da specialità tali da giustificare – quanto, e forse anche più, delle nove sezioni staccate dei tribunali amministrativi regionali – la celebrazione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, per la fondamentale e imprescindibile funzione di presidio di legalità, costituzionalmente dovuto, per il territorio siciliano.
5. Va al riguardo considerato che, in virtù dell’attuale disciplina contemplata dal D.Lgs. 24 dicembre 2003 n. 373, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, pur essendo di certo una sezione del Consiglio di Stato – tanto che l’Adunanza Plenaria 13 settembre 2022, n. 13, gli ha riconosciuto la potestà di regolare il riparto della competenza rispetto a tutti i giudici amministrativi di primo grado, allorché la questione sia stata introdotta a mezzo dell’impugnazione di una pronuncia sulla competenza resa dal T.A.R. Sicilia – a ben vedere non è una sezione del Consiglio di Stato in tutto e per tutto uguale alle altre.
Il Consiglio di giustizia amministrativa è, invero, una sezione alquanto particolare del Consiglio di Stato, perché:
1) è una sezione una e bina, giacché al suo interno vi è sia la sezione giurisdizionale, sia la sezione consultiva (ma – considerato che i ricorsi straordinari al Presidente della Regione, per un’espressa previsione statutaria in tal senso, sono decisi a sezioni riunite – forse potrebbe anche considerarsi una e trina);
2) la sua esistenza è prevista da una fonte costituzionale (ossia, come già detto, dall’articolo 23 dello Statuto regionale siciliano) ed è disciplinata dalle relative norme di attuazione, che sono fonte gerarchicamente sovraordinata alla legislazione ordinaria;
3) inoltre, ha una composizione specializzata nella sua sede giurisdizionale, dove devono sempre essere presenti due quinti dei componenti del Collegio di designazione regionale (i c.d. laici); mentre ha una conformazione forseaddirittura speciale, cioè una maggioranza di componenti non togati (tra cui un Prefetto della Repubblica), nella sua sezione consultiva;
4) come le altre sezioni, è tenuta all’osservanza delle decisioni dell’Adunanza Plenaria, però, direi, non già in diretta applicazione dell’art. 99 del c.p.a., bensì per altre e prevalenti vie normative (cioè ex art. 10, comma 4, del cit. D.Lgs. n. 373 del 2003): e dunque rationis imperio – cioèper la forza della ragione insita nel principio di diritto affermato – allorché l’Adunanza Plenaria decida con 13 componenti (vale a dire senza il concorso dei membri di questo Consiglio e non su iniziativa dello stesso Consiglio); essendo invece vincolata anche ratione imperii – cioè in ragione della forza vincolante della decisione presa in quella sede – nei casi in cui l’Adunanza Plenaria abbia deciso con 15 componenti (ossia quando due membri del Consiglio di giustizia partecipano alla Plenaria, che procede su iniziativa dello stesso Consiglio).
È con queste peculiarità che il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana applica il diritto positivo forgiato sia dal legislatore statale, sia da quello regionale.
Il Consiglio è soggetto solo alla legge, ex art. 101 Costituzione, come ogni giudice della Repubblica; sicché applica la legge, ma non la crea.
Tutto questo sulla base dell’assunto – che a me pare però ineludibile, giacché, a non condividerlo, si finirebbe col vanificare del tutto il precetto costituzionale – che il vincolo di cui all’articolo 101, secondo comma, della Costituzione (per cui ogni giudice è soggetto solo alla legge) necessariamente implichi che ciascun giudice sia soggetto soltanto alla legge che egli è chiamato a interpretare; ma non possa esser vincolato anche a un’altra legge che (svuotando dall’interno il principio costituzionale) gli imponga di attenersi a un’interpretazione della legge sostanziale obbligatoriamente conforme a quella stabilita da un altro giudice in un diverso processo.
Altrimenti – oltre a travalicarsi, secondo me, l’art. 101 della Costituzione – si trasformerebbe il nostro ordinamento in un sistema di Common Law.
Evoluzione (o invece, secondo me, involuzione) verso cui non può tuttavia negarsi che siano effettivamente in atto alcune pulsioni – pur se estranee alle tradizioni del nostro sistema giuridico – verosimilmente spinte dal mito (a mio avviso fallace) di una maggiore prevedibilità delle decisioni nei sistemi a precedente giuridicamente vincolante; e, forse, anche dal modo d’essere dello sviluppo del diritto dell’Unione europea (anch’esso, in parte, a propulsione giurisprudenziale).
6. Il 2024 è stato un anno particolarmente importante per noi anche perché, dopo un pluridecennale pellegrinaggio, siamo infine tornati a quella che fu un tempo, è oggi e – auspicabilmente – resterà a lungo in futuro la bella sede del nostro Consiglio di giustizia amministrativa: Villa Belmonte.
Per i pregevoli profili artistici e architettonici della nostra Sede rimando alla descrizione che ne ha curato il Soprintendente ai BB.CC., Dott.ssa Selima Giuliano, pubblicata in allegato a questa mia relazione.
Era esattamente un anno fa, proprio il 7 febbraio 2024, che si è tenuta la prima udienza in quest’Aula: e, dopo circa un’ora dal suo inizio, l’abbiamo brevemente sospesa per ricevere la gradita visita del Presidente della Regione siciliana che, in quell’importante snodo della nostra storia, volle venire a salutarci di persona.
Lo ringrazio nuovamente, sia per tale cortesia, sia per la sollecitudine che – insieme a tutta la Regione, in particolare ai due assessori all’economia che si sono succeduti nell’ultimo biennio – almeno dall’inizio del 2023 (allorché io ho assunto la presidenza di questo Consiglio) ci ha sempre dimostrato, nell’approntare prima e nel perfezionare poi tutto quanto ci è servito, e ancora ci servirà, per operare al meglio in questa finalmente degna sede istituzionale.
In questa splendida cornice, orgoglio e vanto della storia e della bellezza della città di Palermo e di tutta la Sicilia, queste sezioni giurisdizionale e consultiva possono adeguatamente svolgere le proprie attività, garantendo ai siciliani la migliore efficienza dell’intero servizio di giustizia, grazie al particolare e lodevole impegno dei magistrati assegnati come del personale amministrativo impiegato, che ringrazio in particolare per lo sforzo profuso durante l’attività di trasferimento del nostro ufficio giudiziario.
Sicché il 2024 è stato un anno certamente ben speso nel perseguimento di questo obiettivo e spero che il 2025 non sia da meno (penso, all’esito degli ultimi lavori ancora in corso, a un’acustica migliore in quest’Aula e a uffici più ampi e comodi per tutti).
7. Se l’abito non fa il monaco, così come la bellezza della sede non fa la qualità, la terzietà e l’indipendenza del giudice, tuttavia il decoro della sede istituzionale serve anche a solennizzare le sue udienze e in questo senso giova al prestigio della funzione, che per il giudice amministrativo è preordinata ad assicurare la piena tutela dei cittadini verso il potere pubblico, mediante l’affermazione della legalità nell’ordinamento giuridico e in particolare nei rapporti coinvolgenti l’esercizio di pubbliche potestà.
È in questa prospettiva che deve porsi, e svolgersi, l’oggetto del sindacato del giudice amministrativo, che è normalmente costituito dal bilanciamento tra potere pubblico e diritti o interessi dei cittadini, nell’eterna e tormentata dialettica tra autorità e libertà, in particolare nelle interazioni tra pubbliche amministrazioni e amministrati, nella prospettiva di assicurare, con la legittimità dell’agire pubblico, la sua corretta coniugazione con le altrui sfere giuridiche soggettive intercettate.
Ritengo che il giudice (e, volendo arare il mio orticello, mi riferisco qui solo a quello amministrativo) non debba curare interessi pubblici, ciò competendo invece all’amministrazione – né ovviamente interessi privati! – così come non debba perseguire finalità specifiche e neppure contrastarle, né dunque debba essere per o pro qualcosa, né contro o anti qualcos’altro, ma unicamente debba perseguire quella che un tempo si chiamava l’attuazione pura del diritto, che credo costituisca il noumeno della funzione giurisdizionale e che si invera, indefettibilmente, nei principi di terzietà e imparzialità che devono sempre connotare il giudice.
Il quale se non è super partes non è un giudice, ma diventa solo uno dei (tanti, e oggi forse pure troppi) contendenti nell’agone politico-sociale.
Per il giudice, dunque, essere terzo e imparziale implica che egli non debba mai avere, né mostrare, preferenze per l’una o l’altra parte processuale, dovendo sempre garantire la c.d. parità delle armi tra esse; perché è la legge a dover scegliere se, come e quanto tutelare l’una o l’altra delle parti processuali, non il giudice.
Da parte sua il giudice, applicando imparzialmente il diritto, darà a ciascuna parte processuale esattamente quella tutela che la legge abbia ritenuto spettarle; e così darà a ciascun interesse in gioco quella stessa rilevanza che la legge gli abbia attribuita.
Ciò in quanto il giudice – che non dovrebbe mai perseguire il consenso; ma che, come usava dirsi un tempo forse anche troppo enfaticamente, dovrebbe, per quanto gli sia possibile, essere soltanto la bocca della legge – è tenuto ad applicare la legge, spettando solo alla legge, ma non al giudice, le scelte di valore nonché l’integrazione e la graduazione tra i diversi valori, soggettivamente opinabili, che si fronteggiano nella società: legge, ovviamente, che qui intendo nel senso di diritto oggettivo, di ordinamento giuridico, e dunque sempre nel pieno rispetto della gerarchia delle fonti, che ha il suo vertice nei principi fondamentali della Costituzione italiana.
Beninteso, non intendo certamente negare che assai spesso esista un notevole ambito interpretativo del giudice, notoriamente tanto più ampio quanto meno il legislatore riesce a compiere scelte nette e nitide, ossia non compromissorie; ma voglio dire che, ogni volta che la scelta legislativa sia chiara, il giudice – come anche il sistema giudiziario nel suo complesso, di cui è espressione quello che oggi si tende a chiamare “dibattito giurisprudenziale” – non dovrebbe far prevalere la propria opinione (che, inevitabilmente, si risolve in un’affermazione lato sensu politica) rispetto alla scelta della legge: perché solo la volontà della legge è espressione della sovranità popolare di cui all’articolo 1 della Costituzione (ossia del più basilare tra i principi costituzionali fondamentali), mentre quella del giudice non lo è.
A proposito di queste tematiche, mi siano consentite due citazioni: diceva Vincenzo Caianiello, nostro Collega e Giudice costituzionale, che il giudice deve esercitare una funzione pubblica, non adempiere a una sua missione, e perciò non deve agire come se avesse una “sovranità istituzionale” parallela (a quella democratica), di cui è invece del tutto sprovvisto; mentre proprio qui a Palermo, alla presenza del Signor Presidente, nell’ottobre del 2023 il Collega ordinario e Sottosegretario con delega alla giustizia amministrativa, Alfredo Mantovano, ricordava che, ex art. 101, primo comma, della Costituzione, i giudici pronunciano sentenze “in nome del popolo” italiano, e non in vece del popolo italiano.
8. Tornando al giudizio amministrativo, è noto come la nostra sia una giurisdizione di tipo soggettivo, intrinsecamente condizionata dai motivi di ricorso effettivamente proposti, e come tale è almeno potenzialmente caratterizzata da un significativo iato tra la verità sostanziale e quella processuale; il quale tende a estendersi vieppiù allorquando il giudice amministrativo si autolimita e si ritrae da un accesso pieno e autonomo al fatto.
Al riguardo, non va dimenticata quella che fu la nostra origine e la ragione stessa della nostra istituzione, sin dal 1889, nell’ambito dell’ordinamento giuridico, cioè proprio l’esigenza del sindacato sull’eccesso di potere: giacché per conoscere della violazione di legge, o dell’incompetenza (che, concettualmente, ne è un mero sottoinsieme), sarebbe bastata quell’unica giurisdizione ordinaria che si cercò di istituire nel 1865 (e che, secondo alcuni, oggi andrebbe financo ripristinata).
Nonostante, infatti, che la nostra giurisdizione sia stata istituita nel 1889 proprio per supplire alle carenze di tutela che chiaramente contraddistinguevano la c.d. giurisdizione unica del 1865, oggi non raramente assistiamo a un self restraint di questo giudice che, pur essendo per antonomasia il censore dell’eccesso di potere, troppo spesso, a parer mio, si ritrae dall’accertamento della sussistenza in concreto di tale vizio di legittimità, giustificando la propria ritrosia con concetti astratti e di non agevole comprensione: come quelli di sindacato debole contrapposto a quello di sindacato forte, di sindacato estrinseco e di sindacato intrinseco, di legittimità formale e di legittimità sostanziale.
La diffusione degli ambiti del sindacato debole, estrinseco e formale, che spesso vengono evocati allorché l’oggetto del contendere sia costituito dalla legittimità di atti altamente discrezionali, genera la difficoltà di capire con chiarezza quali ambiti di applicazione debbano residuare per il sindacato forte, intrinseco e sostanziale; ma allora, quando il loro ambito applicativo diventa incerto, a esserne ab imis pregiudicata è l’effettività della tutela giurisdizionale amministrativa e, con essa, la certezza stessa del diritto.
In realtà, per svolgere davvero la funzione che sin dal 1889 ci è stata affidata dal legislatore – e poi confermata dalla Costituzione – ritengo che il sindacato del giudice sull’attività amministrativa non possa (e, soprattutto, non debba) essere né debole né forte, né intrinseco né estrinseco; ma debba, invece, sempre esseresemplicemente effettivo!
Il nostro precipuo compito, cioè, è sindacare il rapporto controverso in relazione ai suoi profili di illegittimità – ivi inclusi, anche e soprattutto, quelli di eccesso di potere – che siano stati dedotti con i motivi di ricorso proposti.
Il che non significa estendere il nostro giudizio al merito, violando la c.d. riserva di amministrazione, bensì garantire al cittadino un sindacato effettivo sulla legittimità dell’azione amministrativa – doverosamente intesa in senso sempre sostanziale – giacché altrimenti una giurisdizione amministrativa distinta da quella ordinaria non avrebbe invero alcuna ragione di esistere.
Io peraltro credo che questa non sia solo un’opinione, ma che si tratti di un precipuo obiettivo imposto dall’articolo 113 della Costituzione, al secondo comma, laddove si specifica che la “tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”.
Il che implica, direi necessariamente, che il sindacato di legittimità sia sempre effettivo, cioè teso a verificare sempre la legittimità sostanziale dell’atto impugnato e della scelta con esso compiuta dall’amministrazione.
Un sindacato che non può essere sul merito, ma che pure è abbastanza vicino al merito, essendo una finestra, se non sulla verità, quantomeno sui fatti verificatisi e sulla loro congruità rispetto alla scelta amministrativa compiuta, la quale dunque deve essere sempre pienamente verificabile dal giudice.
Sicché è proprio sul crinale, non sempre certo e chiaro, che delimita il confine tra discrezionalità e merito che il giudice amministrativo deve svolgere appieno la propria funzione, sanzionando tutti i profili di illegittimità dell’agire pubblico, ma pur senza (bisogno di) intaccare la riserva costituzionale di amministrazione.
Perché l’insindacabilità delle scelte di merito dell’amministrazione, così come certamente non impedisce alcuna valutazione sulle concrete modalità di esercizio della discrezionalità, nemmeno può giustificare la limitazione della tutela ai soli vizi formali di legittimità, precludendo ai cittadini il diritto costituzionale alla difesa sostanziale: è in effetti un ossimoro la ricorrente affermazione dell’insindacabilità delle scelte discrezionali dell’amministrazione, che invece sono (e devono essere) sempre sindacabili da questo giudice per i profili di eccesso di potere (se dedotti, ovviamente).
Un compito certamente non agevole, soprattutto laddove sia più ampia l’autonomia decisionale delle autorità amministrative, tanto da non consentire sempre e in maniera rigorosa la prevedibilità degli esiti del giudizio amministrativo.
La continua evoluzione delle esigenze sociali, infatti, implica un costante aggiornamento della risposta pubblica, soprattutto negli ambiti discrezionali.
Ecco perché nei procedimenti caratterizzati dall’esercizio di potere discrezionale la partecipazione del cittadino assume oggi ancor più rilevanza che in passato: la quale non va considerata quale un mero orpello formalistico, ma come un’attività essenziale proprio ai fini della legittimità dell’azione amministrativa.
Il procedimento è, infatti, la sede del necessario confronto tra i diversi interessi, pubblici e privati, convolti dall’agire dell’amministrazione e deve ritenersi l’ambito elettivo in cui realizzare l’unità di tempo, spazio e azione del rapporto amministrativo: quello che oggi viene considerato il vero oggetto del giudizio amministrativo, che non guarda più (solo) all’atto impugnato, ma (anche) a tutti i rapporti giuridici tra l’amministrazione e gli amministrati che quello va a costituire, modificare o estinguere.
Il confronto (preventivo) con l’Amministrazione procedente è, dunque, un momento raramente eludibile; tranne che in quei pochi casi in cui sia davvero evidente, o si possa seriamente dimostrare, che l’epilogo del procedimento non avrebbe comunque potuto essere diverso.
Il che però è tutt’altra cosa dal dire che, siccome l’amministrazione poteva (astrattamente) fare ciò che ha fatto, non avrebbe potuto fare diversamente: giacché il sindacato sull’eccesso di potere consiste appunto nel verificare (non già se la legge consentisse di fare quella cosa, perché ciò attiene al diverso profilo della violazione di legge, bensì) se ciò che l’amministrazione ha fatto l’abbia fatto bene, cioè proporzionatamente e ragionevolmente.
Dunque la partecipazione procedimentale serve, anche e soprattutto, a porre le migliori precondizioni affinché ciò accada, sicché piuttosto raramente risulterà corretto predicarne ex post la superfluità.
Appare perciò un malinteso senso di “sostanzialità” della tutela ad aver mosso la giurisprudenza verso una diffusa e generica “dequotazione” dei vizi c.d. formali del procedimento a mere irregolarità non invalidanti (con una forse eccessiva dilatazione interpretativa dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990); giacché l’estensione della cognizione del giudice all’intero rapporto giuridico derivante dal provvedimento impugnato dovrebbe semmai risolversi in una tutela incrementale del cittadino, non già in una sua riduzione (che, se poi il giudice alla “dequotazione” dei vizi c.d. formali aggiunge anche la propria timidezza nel sindacare l’eccesso di potere, si rischia il tendenziale azzeramento della tutela concretamente somministrata).
Non per caso il legislatore, con l’introduzione all’art. 1 della legge n. 241/1990 del comma 2 bis, ha voluto imporre che i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione siano improntati ai principi della collaborazione e della buona fede.
Due clausole generali proprie del diritto civile, qui però declinate nella realtà procedimentale amministrativa in quanto indicative della necessità che tutte le parti in causa, sia pubbliche che private, operino non solo nel rispetto della legge, ma anche con reciproca lealtà, garantendo trasparenza e collaborazione nell’individuazione della regola che andrà a disciplinare il singolo rapporto amministrativo in questione.
Infatti, pur non potendo risolversi nell’esito di una trattativa, come nel diritto contrattuale civile, la funzione amministrativa deve, comunque, essere il riflesso di una determinazione che sia, per quanto possibile, il risultato di un armonico e costruttivo confronto con i cittadini, perché siano valutati sin da subito tutti i profili critici potenzialmente incidenti in senso negativo sulla sfera giuridica dei destinatari del provvedimento che sarà adottato, affinché il giudizio di proporzionalità del sacrificio autoritativamente imposto sia effettuato ab initio nel modo più pieno e consapevole, nonché attuato secondo il principio di c.d. minimo mezzo (che è corollario di quelli di proporzionalità e ragionevolezza).
I principi di collaborazione e buona fede impongono, dunque, da un lato al cittadino di astenersi dal porre in essere condotte fraudolente, ma dall’altro lato alla pubblica amministrazione di esternare già in sede procedimentale tutte le eventuali perplessità ostative all’accoglimento della presentata istanza.
Ecco la ragione per la quale assume particolare rilevanza – ancor più dell’avviso di avvio – l’istituto del preavviso di diniego e la sua recente regolamentazione normativa (forse non ancora pienamente valorizzata dalla giurisprudenza) in ordine alle conseguenze della sua violazione.
Ma ecco perché è pure essenziale che il giudice amministrativo chiarisca sempre, sia in primo che in secondo grado, gli effetti conformativi scaturenti dalle proprie pronunce di annullamento, onde orientare sin da subito la futura riedizione del potere in relazione al tipo di motivo accolto, anche in un’ottica deflattiva del contenzioso nei futuri ed eventuali giudizi di ottemperanza (che sono una troppo alta percentuale del nostro carico di lavoro).
9. Con riguardo, poi, a quest’ultimo, occorre esternare un dato statistico assai rilevante, ossia l’anomalo aumento del contenzioso che noi abbiamo registrato nel 2024 rispetto a quello del 2023 (che era invece rimasto grossomodo in linea con quello degli anni precedenti).
Si è passati, infatti, dai 1.250 ricorsi pervenuti nel 2023 (dato che è coerente con le sopravvenienze dell’ultimo decennio, che vanno dalle 996 del 2018 alle 1.344 del 2021) ai 1.496 ricorsi del 2024 (e infatti il fascicolo n. 1.000 quest’anno è stato depositato il 6 agosto 2024, anziché tra ottobre e dicembre come era sempre accaduto in passato), con un incremento del 20% nell’ultimo anno solare rispetto al penultimo.
Nonostante ciò – grazie anche alla nostra specialità di sezione peculiare, per cui abbiamo, o almeno dovremmo avere, una dotazione organica arricchita da ben 9 componenti di designazione regionale, di cui 4 nella Sezione giurisdizionale – siamo finora riusciti a rispettare i tempi processuali richiesti dalla C.E.D.U., avendo fissato per tutti i ricorsi l’udienza di merito entro un biennio dal deposito.
E ciò stiamo facendo anche nel 2025, fissando entro quest’anno l’udienza di merito per tutti i ricorsi depositati entro il 2023, e proveremo a proseguire analogamente per quelli depositati nel 2024, se ci sarà consentito dall’esplosione del contenzioso in entrata riscontrata in tale anno e dall’incompleta copertura dell’organico per la parte di pertinenza regionale (su cui ritornerò infra).
Trattiamo, inoltre, tutte le istanze cautelari nei tempi richiesti dal codice, cioè nella prima udienza successiva alla scadenza del termine previsto dall’art. 55, comma 5, del codice del processo amministrativo; e facciamo – anzi, faccio, giacché le esito tutte io – un uso assai limitato del potere cautelare presidenziale (sempre attenendomi, nello scrutinio di ammissibilità, al tenore letterale del codice: che per l’appello sui decreti la esclude).
Soprattutto, ci sforziamo di attuare nei fatti l’equidistanza del giudice da tutte le parti processuali, che va sotto il nome di imparzialità, dando ragione a chi riteniamo l’abbia, senza alcuna distinzione di ambiti o di materie trattate.
10. Un ruolo rilevante va riconosciuto anche all’attività consultiva.
Al riguardo, merita rimarcare che la funzione consultiva di questo Consiglio ha un duplice fondamento di rango costituzionale, non soltanto, implicitamente, nell’art. 100, primo comma, della Costituzione, ma anche, direttamente ed esplicitamente, nello Statuto di autonomia, giacché il suo più volte citato art. 23, secondo comma, prevede appunto che la sezione siciliana del Consiglio di Stato svolga anche funzioni consultive; e, al quarto comma, che «[i] ricorsi amministrativi, avanzati in linea straordinaria contro atti amministrativi regionali, saranno decisi dal Presidente della Regione, sentite le Sezioni regionali del Consiglio di Stato» (si noti che l’uso del plurale nella dizione statutaria ha continuato a imporre, anche in sede di redazione delle nuove norme di attuazione del 2003, il mantenimento della competenza a esprimere il parere in capo alle sezioni riunite di questo Consiglio di giustizia).
La funzione consultiva, sempre svolta “nell’interesse pubblico” e non “nell’interesse della pubblica amministrazione” richiedente, concorre, con quella giurisdizionale, a realizzare la giustizia amministrativa: sicché in Sicilia il Consiglio di giustizia amministrativa è il massimo organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione.
Il Consiglio di giustizia in sede consultiva rende, oltre ai pareri obbligatori a sezioni riunite sui ricorsi straordinari al Presidente della Regione e a sezione semplice sui regolamenti regionali, anche pareri facoltativi concernenti l’interpretazione di norme. Questi ultimi pareri, resi dalla sezione consultiva, sono un ausilio tecnico-giuridico per indirizzare l’attività di amministrazione attiva nell’alveo della legittimità e della buona amministrazione.
Il ricorso straordinario, istituto di antichissima tradizione che trae origine dalle istanze di giustizia graziosa rivolte al sovrano nelle monarchie assolute, ha dimostrato, nei decenni, di ben rispondere alle istanze di tutela dei cittadini, concorrendo ad assicurare la giustizia amministrativa. Nonostante la crescente rilevanza assunta, nel tempo, dalla funzione giurisdizionale, il ricorso straordinario – precursore storico del ricorso giurisdizionale al Consiglio di Stato – è, infatti, un rimedio giustiziale che presenta ancor oggi grandi utilità: assicurando un agevole accesso alla giustizia amministrativa (che era gratuito, prima dell’introduzione di un contributo unificato di pari entità al ricorso giurisdizionale); potendo essere presentato anche direttamente dagli interessati, senza necessità di alcuna rappresentanza tecnica; avendo un termine di proposizione, pur se perentorio, assai più ampio di quello del ricorso giurisdizionale; infine, l’affare viene deciso in unico grado da un collegio di magistrati qualificati, il cui parere definitivo è equiparato quoad effectum alla sentenza che, se di annullamento, può essere portata a esecuzione mediante l’azione di ottemperanza.
Siccome chiarito di recente dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del 7 maggio 2024, n. 11, e come già affermato da questo Consiglio col parere n. 61 del 2020, il ricorso straordinario è un rimedio giustiziale alternativo a quello giurisdizionale, del quale condivide soltanto alcuni profili strutturali e funzionali. Volendo richiamare un’espressione anglosassone, si può affermare che il ricorso straordinario è uno strumento di ADR, cioè di alternative dispute resolution, di controversie insorte tra le amministrazioni e i cittadini o le imprese.
In particolare, il ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana, che si affianca, per gli affari concernenti la Regione e gli enti subregionali, al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, presenta alcuni tratti del tutto peculiari e costituisce un’ulteriore espressione di uno dei c.d. “contenuti storico-concreti” dell’autonomia regionale siciliana, di cui si è già detto in apertura di questa relazione.
Nondimeno, il ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana, in quanto previsto dall’art. 23 dello Statuto, ha fondamento costituzionale, sicché (diversamente da quello al Presidente della Repubblica) non potrebbe essere abrogato da una legge ordinaria.
11. Nel 2024 la Sezione consultiva e le Sezioni riunite hanno reso, in complesso, 318 pareri; redatti, del tutto prevalentemente, dai magistrati della Sezione consultiva.
Resta sullo sfondo l’esigenza di rivitalizzare il ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana, per riportarlo a essere quella nobile forma di c.d. giustizia dei poveri – accessibile da chiunque anche senza difensore e senza costi eccessivi e dissuasivi – che sempre l’aveva contraddistinto fino agli inizi di questo secolo.
A tal fine, mi piacerebbe suggerire alla Regione di trovare una strada per ridurre il relativo contributo unificato – pur senza tuttavia eliminarlo – a una misura poco più che simbolica (facendosi eventualmente carico, verso lo Stato, della differenza: che, agli attuali livelli di contenzioso, consiste in un gettito erariale di gran lunga inferiore a un milione di euro all’anno), per meglio distinguerlo dal ricorso giurisdizionale anche in punto di effettiva accessibilità a chiunque per controversie di minimo valore.
12. Veramente da ultimo, non credo di potermi esimere da un cenno all’organico di fatto oggi in servizio presso questo Consiglio di giustizia amministrativa.
La sezione giurisdizionale è presieduta da me, con l’ausilio del Presidente Roberto Giovagnoli, ed è attualmente composta dai Consiglieri di Stato Solveig Cogliani, Michele Pizzi, Anna Bottiglieri, Giuseppe Chinè, Maurizio Antonio Pasquale Francola, nonché dai componenti designati della Regione Avv. Antonino Caleca e Avv. Antonino Lo Presti: i due ulteriori posti – che però da aprile diventeranno tre – della pianta organica dei componenti regionali sono invece attualmente vacanti.
La sezione consultiva è, invece, presieduta dal mio vicario, Presidente Gabriele Carlotti – che, su mia delega, di norma presiede anche le sezioni riunite – ed è attualmente costituita dai Consiglieri di Stato Antimo Prosperi e Maria Francesca Rocchetti, nonché dal Prefetto della Repubblica Enrico Gullotti e dai componenti designati della Regione, Avv. Giovanni Ardizzone, Avv. Vincenzo Martines, Avv. Paola La Ganga e Avv. Giuseppe Arena: l’ulteriore posto nella relativa pianta organica dei componenti regionali (ma da aprile diverranno due) è invece al momento vacante.
Mentre la componente togata è totalmente completata dalla presenza dei suddetti consiglieri di Stato oggi in servizio, dal 9 aprile 2025 – allorché cesseranno dal servizio l’Avv. Giovanni Ardizzone e l’Avv. Antonino Caleca – diverranno vacanti ben cinque posti tra i componenti designati della Regione: di cui tre nella sezione giurisdizionale (dei quattro in organico) e due nella sezione consultiva (dei cinque in organico).
In proposito, il Presidente della Regione mi fornito tutte le rassicurazioni del caso, di cui non dubito, anticipandomi anche che è in itinere un’ulteriore designazione, e di ciò lo ringrazio.
Al contempo – anche perché i tempi procedurali occorrenti per le nuove nomine eccedono la residua durata del mandato dei due predetti colleghi in scadenza – non posso non rinnovare anche oggi il nostro più vivo, accorato e urgente auspicio che si proceda senza ritardi alla designazione anche di tutti gli altri componenti necessari a coprire i residui posti vacanti, onde poter continuare a garantire il servizio giustizia ai siciliani con la stessa tempestività che finora siamo faticosamente riusciti a mantenere.
* * *
Ringrazio tutti gli intervenuti a questa cerimonia e dichiaro aperto l’anno giudiziario 2025 della Giustizia amministrativa siciliana di ultimo grado.
* * *
Palermo, 7 febbraio 2025.
Il Presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana
Dott. Ermanno de Francisco
[1]) Cfr. le ampie competenze legislative primarie, o esclusive, che l’art. 14 dello Statuto attribuisce all’Assemblea regionale siciliana, pur se «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato», in molti settori fondamentali della vita dei siciliani e del pieno autogoverno del loro territorio (come le attività produttive di industria, commercio e agricoltura, l’attività estrattiva di miniere, cave, torbiere e saline, l’urbanistica, i lavori pubblici, l’espropriazione, la tutela delle bellezze naturalistiche siciliane quali il paesaggio e la conservazione di antichità e opere artistiche, nonché il regime degli enti locali e l’ordinamento degli uffici e degli enti regionali, con le connesse questioni afferenti al diritto elettorale).
[2]) Essendosi così dissipati i dubbi che la sua istituzione aveva inizialmente ingenerato financo presso il Consiglio di Stato (su cui cfr. il parere dell’Adunanza Generale 11 luglio 1946, n. 78).
[3]) Ciò grazie soprattutto al prezioso lavoro di due illustri protagonisti (che oggi potremmo anche ritenere e definire “padri” della giustizia amministrativa siciliana): il Presidente del Consiglio di Stato dell’epoca, Ferdinando Rocco, e l’allora giudice dell’Alta Corte di Giustizia per la Regione siciliana, Don Luigi Sturzo.
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