La proposta di judicial overhaul in Israele come paradigma di odierno attacco all’indipendenza della magistratura

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Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell’Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link

La proposta di judicial overhaul in Israele come paradigma di odierno attacco all’indipendenza della magistratura

di Leonardo Pierdominici

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Sommario: 1. La rilevanza del caso israeliano – 2. La proposta di riforma governativa. – 3. Perché un paradigma?

1. La rilevanza del caso israeliano. 

La scelta di analizzare il caso di Israele quando si discute di problematiche costituzionalistiche può sempre sembrare, prima facie, latamente esotica: e dunque non pienamente attinente con le sfide che i maturi ordinamenti dell’area euro-atlantica si trovano a fronteggiare.

In realtà così non è, in particolare per quel che attiene al nostro tema di discussione, e dunque all’organizzazione della magistratura e alla sua indipendenza.

Israele, laboratorio di costituzionalismo liberal-democratico in terra aliena (pur con connaturate debolezze strutturali), costituisce nell’attuale temperie un esempio paradigmatico di ordinamento che fronteggia un virulento attacco politico all’indipendenza della magistratura.

Certe dinamiche storiche rendono esacerbate le dinamiche dei conflitti tra poteri, che oggi prorompono; gli influssi populisti recenti, sul modello anche di alcuni ordinamenti europei, completano il preoccupante quadro, che il conflitto a Gaza ha solo reso meno impellente.

2. La proposta di riforma governativa.

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Il governo Netanyahu VI, insediatosi a fine dicembre 2022, ha incardinato a stretto giro presso la allora neo-costituita Knesset, locale assemblea elettiva nazionale, una complessa proposta di riforma della giustizia, dopo averla posta al centro dell’accordo di programma della nuova coalizione di destra vincitrice delle elezioni.

Essa si compone di una serie di elementi, che vanno partitamente analizzati, al fine di giungere a una visione d’insieme delle sue finalità.

La proposta intende intervenire su cinque fondamentali aspetti del sistema costituzionale israeliano.

La prima dimensione del proposto intervento attiene alle modalità di selezione dei giudici nell’ordinamento.

L’attuale sistema, fondato sulle disposizioni della Basic Law: the Judiciary (la legge costituzionale in materia di ordinamento giudiziario), prevede che i giudici siano nominati da un Judicial Selection Committee composto da nove membri: il Justice Minister e il Chairman Cabinet Minister in rappresentanza del governo, due membri della Knesset usualmente designati in rappresentanza di maggioranza e opposizione parlamentare, due membri della locale Bar Association, ossia designati dall’avvocatura, tre membri in rappresentanza dei giudici della Corte suprema, tra cui il Chief Justice. Sempre attualmente, la nomina dei giudici ordinari avviene a maggioranza semplice tra i membri del Judicial Selection Committee; quella dei giudici della Corte suprema, in esito ad una riforma del 2008, avviene a maggioranza di sette membri su nove, così da garantire un sostanziale e speculare potere di veto tanto in capo alla componente magistratuale che a quella politica (composta dai due membri del governo e dal deputato di maggioranza), e così da garantire nomine necessariamente congiunte.

L’attuale proposta governativa mira alla modifica di tale assetto, al fine di dotare la maggioranza politica all’interno dell’eventualmente riformato Judicial Selection Committee di una capacità di decisione sostanzialmente autonoma. L’idea è di modificare la composizione del Committee portandola a undici membri: il Justice Minister, che fungerebbe anche da presidente, due altri ministri designati dal governo, i presidenti del Constitution, Law and Justice Committee, dello State Control Committee, dello Knesset Committee costituiti all’interno dell’assemblea parlamentare (anch’essi, quali presidenti di commissione parlamentare, solitamente riconducibili alla maggioranza), il Chief Justice e altri due giudici della Corte suprema scelti in autonomia dall’organo, due altri rappresentanti scelti dal Justice Minister, di cui uno avvocato. La necessaria maggioranza di sette membri per la nomina di ogni giudice, anche della Corte suprema, sarebbe così facilmente raggiungibile coi soli voti dei componenti in un modo o nell’altro riconducibili al governo in carica: così da potenzialmente dotare quest’ultimo di un pieno controllo su nomine e revoche degli appartenenti all’ordine giudiziario.

La seconda dimensione del proposto intervento attiene alle modalità del controllo di costituzionalità delle leggi in essere nell’ordinamento.

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Nel sistema costituzionale israeliano a partire dagli anni ‘90 s’è sviluppata per via pretoria una forma di controllo di costituzionalità delle leggi, nonostante l’inesistenza di una costituzione unidocumentale e rigida, e l’esistenza di un solo reticolo, incompleto, di cd. Basic Laws emanate nel corso dei decenni, adottate senza la previsione di alcun procedimento aggravato, e sino agli anni ’90 vertenti solo su aspetti organizzativi dei poteri dello Stato. Sulla scorta della adozione nel 1992, da parte della Knesset, delle prime Basic Laws in materia di diritti fondamentali, la Corte suprema d’Israele ha dichiarato, col noto caso United Mizrahi Bank del 1995 (non a caso da più parti paragonato alla storica sentenza Marbury v. Madison della Corte suprema degli Stati Uniti che nel 1803 “inventò” il judicial review of legislation), l’esistenza di una «rivoluzione costituzionale» nell’ordinamento, ossia di un preteso cambiamento paradigmatico nella struttura costituzionale del paese e nei rapporti tra potere politico e potere giudiziario, prima modellati sull’ancoraggio alla common law britannica e ad un costituzionalismo “evoluzionista”, ma ormai da ritenersi fondati, invece, sulla judicial supremacy, e dunque sulla piena possibilità di un controllo giudiziale della conformità delle leggi ordinarie con i disposti delle Basic Laws.

Tale «rivoluzione costituzionale», a far data dal 1995, ha costituito il paradigma ampiamente maggioritario nella lettura della struttura costituzionale d’Israele: ma tale paradigma interpretativo, seppur largamente adottato, non è mai stato l’unico, ha condotto ad un uso cauto e spesso contestato degli effetti poteri di controllo di costituzionalità delle leggi, e ha sempre conosciuto tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico tesi alla riaffermazione della propria primazia.

Ecco dunque che l’attuale proposta governativa in discussione mira alla modifica di tale assetto, e dunque a porre un freno al potere di controllo di costituzionalità delle leggi che la Corte suprema d’Israele s’è arrogata: da un lato, finalmente, sancendone l’esistenza nell’ambito della normazione primaria, mediante l’adozione di una Basic Law: the Legislation sino ad oggi ripetutamente prefigurata ma mai emanata; dall’altro, espressamente limitandolo in due fondamentali sensi, ossia anzitutto vietando il judicial review avente ad oggetto Basic Laws, e dunque sancendo l’impossibilità di controllo giudiziale di «unconstitutional constitutional amendments» (si noti: nell’ambito di un sistema che non differenzia l’adozione di Basic Laws mediante procedimenti legislativi aggravati, e dunque rimanendo solo nominalistica la differenza tra leggi ordinarie e tali “leggi fondamentali”), e poi richiedendo, per la dichiarazione d’incostituzionalità di leggi ordinarie, una pronunzia della Corte suprema in necessaria seduta plenaria di quindici membri, e con un quorum deliberativo dell’80% dei membri stessi.

Fin troppo evidente, in tal ottica, l’intento governativo: una severa actio finium regundorum degli spazi tra potere giudiziario di controllo di costituzionalità delle leggi e potere politico, che, pur istituzionalizzando il primo, ne sancisca significativi limiti procedurali, e soprattutto esoneri dal controllo la normazione attuata nelle forme di Basic Law – senza però che tali forme prevedano, ad oggi, procedure aggravate particolari, e dunque essendo esse alla mercé di maggioranze politiche semplici.

Tale intento di ridefinizione dei ruoli tra politico e giudiziario risulta vieppiù chiaro se poi si guarda alla terza dimensione del proposto intervento, che attiene alla possibilità di cd. override parlamentare delle decisioni della Corte suprema in punto di incostituzionalità della legislazione.

L’idea che si propone è quella di dotare la Knesset in via generalizzata del potere di sovvertire, mediante votazione a maggioranza assoluta (61 deputati su 120), una decisione della Corte suprema che abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge: così ri-affermando, mediante deliberazione assembleare ulteriore, la vigenza della normazione censurata.

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Si gioca, con tale proposta, con la generalizzazione di un meccanismo di pretesa soluzione della cd. counter-majoritarian difficulty teorizzata, da noti costituzionalisti americani, come insita in ogni esercizio di controllo di costituzionalità delle leggi: con il controllo di costituzionalità si sancisce sì la preminenza di regole e principi di rango costituzionale su deliberazioni legislative di rango ordinario; ma, sul piano istituzionale, si afferma la possibilità che giudici, o organi in ogni caso non eletti o comunque dotati di legittimazione diretta, annullino le volontà dei rappresentanti del corpo elettorale, e dunque agiscano in contrasto con la volontà maggioritaria, e ciò costituirebbe la “difficoltà” di base che alimenta il secolare dibattito sulla legittimità e sulle forme di legittimazione necessarie a tal fine.

Il potere di cd. override parlamentare è uno degli svariati sistemi teorizzati e poi applicati, in ambito comparatistico, per la pretesa soluzione di tale intrinseco dilemma istituzionale: sancendo una deroga al principio di judicial supremacy, che darebbe all’organo di controllo di costituzionalità l’“ultima parola” sulla questione controversa, si prevede che l’organo politico si possa riappropriare di tale ultima parola, con deliberazione susseguente presa semmai con speciali maggioranze. Ma qui è ovviamente il punto: tale soluzione è invero prevista, in ambito comparatistico, da alcuni sparuti ordinamenti, e tra questi v’è già Israele rispetto a puntiformi disposizioni delle Basic Laws del 1992 sui diritti fondamentali (è insomma previsto che ove queste specifiche disposizioni fungano da parametro in un giudizio di costituzionalità, un override parlamentare è possibile); è di solito accompagnata da limiti di vigenza temporale e relativi ai possibili parametri costituzionali interessati; la proposta in discussione è invece anzitutto relativa alla generalizzazione di tale istituto (relativamente ad ogni possibile parametro di costituzionalità, anche fondamentale), può condurre a ri-affermazioni di vigenza permanenti della legge censurata, e soprattutto si calerebbe in un contesto ordinamentale in cui, s’è detto, non esistono procedimenti legislativi aggravati per l’adozione di Basic Laws (donde il rischio che la disciplina costituzionale parametro sia sostanzialmente messa in dubbio, nella sua effettività, dalla successiva deliberazione che deroghi alla sua applicazione giudiziale), e la maggioranza assoluta di 61 deputati su 120 è usualmente appannaggio della coalizione governativa (donde il rischio che una mera maggioranza politica possa sovvertire in ogni caso decisioni giudiziali di incostituzionalità).

Ancora sostanzialmente collegata è la quarta dimensione del proposto intervento, che attiene alla volontà governativa di vietare ex lege ogni modalità di censura giudiziale dell’azione amministrativa sub forma di controllo di ragionevolezza.

Il vaglio giudiziale della ragionevolezza dell’azione amministrativa è istituto antico che appartiene ab origine all’ordinamento giuridico israeliano: come noto, tale ordinamento s’è modellato sin da principio con aderenza alla tradizione di common law britannica, che era unificante law of the land ai tempi del Mandato britannico in Palestina precedenti al 1948. È importante rimarcare che all’aderenza a tale tradizione Israele deve anche la cd. original jurisdiction della Corte suprema quale Alta Corte di giustizia (High Court of Justice), supremo tribunale amministrativo destinato, in via diretta, al vaglio degli atti governativi e delle pubbliche autorità, che si affianca alla sua appellate jurisdiction quale organo di vertice dell’ordinamento per le questioni civili e penali.

Ciò si rimarca al fine di comprendere come la proposta in discussione sia, nuovamente, indirizzata contro il perenne idolo polemico dell’attuale maggioranza politica conservatrice d’Israele: la Corte suprema, rea in questo caso di avere sviluppato appunto quale Alta Corte di giustizia, a partire dalla fine degli anni ‘70, una invero assai largheggiante giurisprudenza tesa alla sostanziale eliminazione, per via interpretativa, delle principali restrizioni procedimentali al potere di scrutinio degli atti amministrativi e dell’esecutivo, ed in particolare dei requisiti di justiciability (idoneità di una controversia a essere decisa da un giudice) e di standing (legittimazione/interesse ad agire), e che avevano in precedenza impedito di pronunciarsi su molte delle questioni portate, anche informalmente od irritualmente, dinanzi ad essa. La trasposizione di questa innovativa giurisprudenza (in larga parte imputabile all’ispirazione teorica del presidente della Corte Aharon Barak, che poi sarà nel decennio successivo il fautore della proclamata «rivoluzione costituzionale» cui s’è accennato) ai procedimenti conosciuti in veste di Alta Corte di giustizia ha finito per conformare un modello di giustizia amministrativa fortemente aperto alle istanze provenienti dalla società, pronto ad affrontare ogni tipo di questione sensibile anche di natura militare, facendo giustizia del motto «everything is justiciable» con cui era stato apertamente teorizzato. La Corte ha in tal senso da decenni strategicamente aperto le proprie porte a pressoché ogni tipologia di attore sociale e di sue doglianze; si è così costruita un ruolo centrale nel vaglio di legittimità dei poteri amministrativi e poi anche legislativi e financo di normazione costituzionale, esercitato sino a censurare, di recente, proprio anche sub forma di vaglio di ragionevolezza, l’abuso del procedimento legislativo, l’abuso delle forme delle Basic Laws, oltre che la violazione dei principi costituzionali.

Evidente allora che la contestazione governativa oggi in discussione non attiene di per sé al vaglio giudiziale di ragionevolezza, ma all’impiego, invero pervasivo, che la Corte ne ha fatto da decenni, sulla scorta di una giurisprudenza largheggiante ma mai sinora messa in discussione.

Da ultimo, la disamina va completata con la quinta dimensione del proposto intervento, che mira alla relativizzazione dell’importante, e “costituzionalizzato”, ruolo dell’Attorney General.

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Tale organo, monocratico, si ispira anch’esso a forme di common law, ma assume nell’ordinamento israeliano un’originale postura. Anziché essere parte della compagine di governo, come omologhi organi in similari sistemi, ne è una sorta di consigliere giuridico, che però s’atteggia a mo’ di autorità indipendente: lo rappresenta in giudizio, sovraintende alla pubblica accusa, formula pareri, spesso obbligatori. Ma, proprio alla luce dell’indipendenza che gli è conferita, l’azione e i pareri dell’Attorney General sono prese di posizione che spesso impegnano, malvolentieri, il governo.

La proposta è di rimodulare la configurazione dell’Attorney General, trasformandolo da organo indipendente a mero consulente posto nei ranghi del Ministero della giustizia, a rendere i pareri del medesimo espressamente non vincolanti per il governo, a consentire ai ministri di svincolarsi dalla necessaria rappresentanza giudiziale dell’Attorney mediante la possibilità di rappresentanza su base volontaria da parte del libero foro, in caso di differenza di vedute con costui.

Ovviamente, ha attratto critiche la posizione di un governo non solo esplicito nella sua volontà di diminuire la possibilità di vaglio da parte dei giudici sul proprio operato, ma anche riluttante ad accettare in tal ottica le prese di posizione dell’Attorney General.

 

3. Perché un paradigma?

Il tentativo di judicial overhaul israeliano, così sommariamente descrvibile, è in più sensi paradigmatico.

È anzitutto indicativo di una recrudescenza nelle dinamiche di conflitto tra poteri che sono tipiche, da decenni, in Israele.

L’idea di una «rivoluzione costituzionale» consumatasi negli anni Novanta, e conducente a pieni poteri di controllo di costituzionalità delle leggi da parte della Corte suprema, in un paese che non ha una costituzione unidocumentale e rigida, è da decenni il paradigma interpretativo maggiormente accettato, ma non è mai stata avallata in senso univoco da ogni strato della complessa, plurale popolazione israeliana. Ciò vale, in generale, per parte significativa del fronte conservatore, ed in particolare vale per i plurimi fronti conservatori religiosi, che temono da sempre un sovvertimento dei delicati equilibri politici di un paese che, sin nella propria Dichiarazione d’indipendenza del 1948, s’è proclamato «Jewish and democratic»: ossia, temono il potenziale impatto laicizzante che l’applicazione iussu iudicis di principi costituzionali liberal-democratici potrebbe avere, ad esempio in settori simbolici ma altamente sensibili quali la gestione pluralistica su base religiosa dei regimi di diritto di famiglia o le storiche esenzioni, pure su base religiosa, dal servizio militare.

Da tale constatazione deriva un primo elemento di contingenza da sottolineare: già si erano registrati, da almeno quindici anni, tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico di riaffermazione della propria primazia rispetto alla proclamazione pretoria del potere di controllo di costituzionalità delle leggi, anche nelle gravi forme oggi proposte (o, rectius, riproposte); la proposta di riforma in discussione però li riunisce, ed è avanzata in un frangente in cui la dinamica politica può concretamente condurre ad una sua adozione.

Occorre infatti considerare che almeno sin dal 2007, e dunque subito successivamente al ritiro di Aharon Barak dalla sua presidenza (e quale carismatica guida), gli attacchi politici alla Corte iniziarono a concretarsi. Chi si fece primo promotore di quella che sarebbe divenuta una serie ripetuta di tentativi di contenimento del potere giudiziario fu l’allora ministro della giustizia Daniel Friedmann, un illustre accademico già voce critica rispetto al tralaticio sistema di nomine giudiziali nel paese, e che avrebbe poi anche nella propria produzione scientifica evidenziato aspre critiche sulla «rivoluzione» giudiziale. Fu nell’ambito del suo mandato che si iniziò a prefigurare l’impiego di quel tipico arsenale di metodi che gli studi comparatistici tradizionali e le riflessioni svolte ci fanno facilmente prefigurare, e che s’attualizzano oggi.

In linea con le ragioni critiche del passato, egli propose anzitutto una riforma del sistema di selezione dei giudici, ed in particolare di quelli della Corte suprema, nella prospettiva di un «court packing» in chiave conservatrice, ossia di una ridefinizione degli equilibri di forza al suo interno: ciò in particolare ragionando della possibile riforma della Basic Law: the Judiciary così da emendare la composizione di quel Judicial Selection Committee tradizionalmente incaricato delle nomine, e tradizionalmente dominato dagli stessi giudici della Corte suprema, capaci dunque di porre in atto, sino a quel momento, una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini.

Altra proposta fu quella di ridefinizione, addirittura mediante legge ordinaria, dell’ambito delle Basic Laws capaci di fungere da parametro in un giudizio di costituzionalità: giacché, da parte critica, si considerava che tra le varie questioni lasciate aperte dal caso United Mizrahi Bank del 1995 vi fosse quella di quali leggi fondamentali potessero fondare i nuovi poteri giudiziali, se solo quelle nuove sui diritti umani del 1992 od anche, opportunamente interpretate, anche quelle passate ed eventuali future. A ciò, viste le polemiche sorte dalla sentenza che per prima aveva interessato la materia, si accompagnava l’idea di emendare la Basic Law: Human Dignity and Liberty, cui pur confermare il potenziale valore parametrico, così da esentare le leggi relative alla cittadinanza, visto il loro potenziale simbolico, dal vaglio di costituzionalità.

Ancora, si propose di emendare sin da quell’epoca, in altri sensi, la Basic Law: the Judiciary: in particolare prevedendo ex lege la possibilità di judicial review of legislation solo da parte della Corte suprema (mirando a risolvere le pur registratesi incertezze sulla natura diffusa o accentrata dei relativi poteri), e solo mediante deliberazioni di collegi di almeno nove giudici, con almeno due terzi dei voti dei giudicanti in favore (mirando a sradicare i pur registratisi episodi di deliberazioni di invalidità a composizione ristretta).

Non solo. Sostanziando appieno l’idea di una «contro-rivoluzione» chiamata a sradicare i frutti della «rivoluzione» di Barak, e dunque in primis l’idea della judicial supremacy fondata sul potere di controllo di costituzionalità delle leggi, si propose la positivizzazione di un generale potere di ovverride da parte della Knesset rispetto ai dicta giudiziali: così che, nella configurazione dei disegni dell’epoca (comunque più garantistica rispetto a quella oggi propalata), una super-maggioranza di 70 membri su 120 della camera rappresentativa potesse rendere inefficace una dichiarazione di incostituzionalità, riasserendo validità ed efficacia della disciplina di legge censurata.

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Nessuna delle proposte suddette si fece effettivamente strada, in quell’iniziale frangente come poi successivamente. Ciò nonostante ognuna di esse sia stata destinata a riemergere a più riprese nel dibattito pubblico, ad esempio nel 2012 e poi ancora recentemente con il mandato al ministero della giustizia della combattiva conservatrice Ayelet Shaked, la quale propose già in quel frangente l’idea, oggi tornata à la page, di un generale override power legislativo a sola maggioranza assoluta.

Solo, nel 2008, s’è emendata la disciplina del Judicial Selection Committee (la cui composizione pur rimase intatta) al fine di richiedere la cennata speciale maggioranza di sette membri su nove per nominare i giudici della Corte suprema: ciò motivando sulla base della delicatezza del ruolo, ma sostanzialmente nella speranza, già in effetti oggi in essere, di ribaltare le usuali dinamiche interne all’organo, che vedevano il sostanziale controllo delle nomine da parte dei giudici stessi, presenti nel Committee nel numero di tre, d’intesa coi membri dell’avvocatura, presenti nel numero di due, e così da privilegiare il peso dei componenti politici (due membri governativi e due membri parlamentari). Riforma parziale che però non ebbe effetti dirompenti, anzi avendone in fondo di condivisibili: richiamando ad un necessario vasto consenso nelle procedure di nomina, senza possibilità di preponderanze tra frange diverse di componenti.

Va dunque ben inteso in che senso si sottolinei tale primo elemento di contingenza: analoghi tentativi di «contro-rivoluzione» rispetto a quelli odierni si registrano, appunto, da quindici anni almeno; essi però non hanno mai incontrato, nel sistema parlamentaristico israeliano fondato sulla formula proporzionale e dunque indefettibilmente su governi di coalizione, l’ampio supporto necessario tra le forze politiche delle varie maggioranze succedutesi, pur se spesso conservatrici e dunque generalmente ostili rispetto all’attivismo considerato liberal della Corte.

Terminato tuttavia l’esperimento del governo di larga coalizione Bennett-Lapid in carica tra il 2021 e il 2022 (fondatosi sulla conventio ad excludendum «rak lo Bibi», ossia “tutti dentro fuorché Bibi Netanyahu”), il governo Netanyahu VI oggi in carica si presenta come un potenziale sovvertimento delle dinamiche politiche degli scorsi anni. Esso gode nella Knesset di una maggioranza di supporto solida, che ammonta a 64 deputati su 120; e si fonda su una coalizione che può dirsi quella più a destra della storia di Israele, che federa gli storici alleati ultraortodossi Shas e United Torah Judaism e per la prima volta formazioni di destra radicale quali Otzmà Yehudit, Tkumà e Noam, rispetto alle quali il Likud è, insolitamente, “ala moderata”; e che è resa vieppiù omogenea dalla precedente, risentita esperienza all’opposizione.

Quel che insomma non s’era concretato negli scorsi due decenni, ossia una convergenza di forze conservatrici, sia religiose che più laiche, programmaticamente ostili, nel conflitto tra poteri, rispetto alla Corte e al suo operato, e pronte per ciò a sovvertire il sistema costituzionale, oggi viene in essere: tanto che, in punto di contingenza politica, va registrato che non solo (s’è accennato) la proposta riforma era parte del programma elettorale espressamente propalato dall’attuale maggioranza, e siglato dalle sue forze componenti, ma che, addirittura, in simultanea rispetto alla sua presentazione, che è tesa alla ridefinizione dei poteri costituzionali della Corte, il governo è pure al lavoro sul sensibile tema dell’ampliamento simmetrico dei poteri delle Corti rabbiniche, nell’idea di facoltizzarle ad agire da arbitri in materia civile sulla base del diritto religioso in presenza di accordo delle parti in conflitto – ma dunque ulteriormente tendendo alla delegittimazione del sistema giudiziario civile, e attentando all’uniformità ordinamentale e di trattamento dei cittadini.

Il fatto che anche il Likud, quale “ala moderata” di coalizione e soprattutto quale partito tradizionale, sia ormai decisamente spinto ad esacerbare il conflitto tra poteri – almeno ad oggi, e nonostante qualche primo timido recentissimo ripensamento – deriva poi da un secondo elemento di contingenza, che pure va sottolineato.

Benjamin Netanyahu, leader del Likud, è dal 2020 imputato per frode e corruzione dinanzi alla District Court di Gerusalemme. Ciò non solo comporta ragioni nuove di tensione tra coalizione di governo e ordine giudiziario, che aggravano quelle già esistenti e di cui s’è detto; ma ha comportato ripetuti interventi dell’Attorney General che hanno stigmatizzato il conflitto d’interessi del primo ministro rispetto alla proposta riforma giudiziaria, e lo hanno invitato a non assumere, nell’iter legis, un ruolo attivo, in ottemperanza al patto da lui stesso siglato nel 2020, su invito proprio dell’Attorney General, per continuare a rivestire legittimamente cariche pubbliche di governo nonostante la delicata posizione assunta. Si è recentemente arrivati addirittura all’approvazione di una specifica disciplina di legge che garantisce l’impossibilità di rimozione del primo ministro dall’incarico per ordine giudiziario, evidentemente fondata sul timore che l’Attorney General potesse richiedere alla Corte suprema misure del genere contro Netanyahu: e subito successivamente all’approvazione di tale discutibile disciplina novella, il primo ministro ha ripreso senza requie il proprio battage polemico sul tema.

Ciò spiega facilmente, già di per sé, perché la proposta di riforma sia largamente indirizzata contro la figura indipendente dell’Attorney General, oltre che contro l’ordine giudiziario organizzato.

Va poi ulteriormente rimarcato come, nel sistema israeliano, il circuito Attorney General High Court of Justice si sia reso depositario di prerogative invero ampie, e di scarsa diffusione, per come delineatesi, a livello comparatistico.

Tra queste vi è quella del vaglio di ammissibilità dei candidati a ruoli parlamentari e di governo: talvolta sulla base di discipline di legge specifiche, tra cui quella di cui all’articolo 7a comma 2 della Basic Law: the Knesset che impedisce la candidatura nell’assemblea a chi inciti al razzismo; talaltra sulla base, più discutibile, di un vaglio di ragionevolezza della candidatura rispetto a elementi ostativi pregressi. Su tali fondamenti si sono registrate esclusioni quali quelle, recenti, dell’estate 2019 relativa alla rimozione dal seggio dei deputati della destra radicale ebraica Gopstein e Marzel – membri del partito Otzma Yehudit dell’attuale Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir – e del leader del partito Shas Aryeh Deri nel gennaio 2023 quale Ministro dell’interno dell’attuale compagine di governo, giacché reo di evasione fiscale e pregressi episodi corruttivi.

Anche in tal ottica, risultano evidenti gli elementi di tensione diretta tra maggioranza governativa attuale e ordine giudiziario.

V’è poi una contingenza che potremmo definire comparatistica, ossia che accomuna Israele ad altri ordinamenti nell’attuale temperie.

A più riprese, nell’inusuale lunga serie di governi guidati da Benjamin Netanyahu tra il 2009 e il 2021 (che è coincisa, non a caso, con la gran parte delle iniziative «contro-rivoluzionarie» che abbiamo descritto) i commentatori hanno ragionato di tendenze populiste della politica israeliana, quando non proprio di arretramento delle sue credenziali democratiche. Si sono stigmatizzati i ripetuti attacchi al potere giudiziario e all’indipendenza della figura dell’Attorney General, su cui ci siamo soffermati; ma anche l’adozione di nuove discipline penalizzanti nei confronti delle ONG, ampiamente attive nel paese nell’ambito della tutela dei diritti umani; la centralizzazione del ruolo del Committee of Ministers on Legislation così da controllare, da parte governativa, il calendario dei lavori parlamentari; l’avocazione in capo al primo ministro di plurime deleghe diffusamente esercitate.

S’è dunque molto ragionato in tema di preteso coinvolgimento del paese nelle odierne globali tendenze di «constitutional retrogression», o «constitutional capture» o «democratic decay» che dir si voglia: le quali, secondo gli studiosi che più da vicino le hanno studiate, «drawing on comparative law and politics analysis», si invererebbero attorno a cinque tipiche dinamiche istituzionali, ossia la revisione costituzionale, l’eliminazione degli istituti di garanzia, la centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, la contrazione o distorsione della sfera pubblica, l’eliminazione della competizione politica.

In particolare, specie in punto di eliminazione degli istituti di garanzia e di centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, l’attacco all’indipendenza e alla funzionalità della magistratura è tipico di tali tendenze, e ben conosciuto anche in ordinamenti a noi prossimi, persino appartenenti all’Unione europea: si pensi agli ormai noti «usual suspects» Polonia e Ungheria, già oggetto di plurime censure da parte della Commissione europea e della Corte di giustizia in proposito, ma anche a casi meno noti come la Romania, ove recenti riforme giudiziarie hanno attirato critiche da parte dei commentatori e delle stesse istituzioni sovranazionali.

Proprio dall’accostamento tra analoghe tendenze alla tensione tra potere politico e ordine giudiziario, e a riforme limitanti la capacità della magistratura di svolgere in via indipendente il proprio ruolo, vari analisti hanno potuto osservare, soffermandosi anche su Israele, che «le somiglianze nelle misure adottate in diversi sistemi giuridici e politici, in contesti storici radicalmente diversi, suggeriscono non solo un certo grado di comunanza di idee e obiettivi, ma anche una certa condivisione di esperienze e pratiche da parte di forze illiberali».

Il fenomeno dello scivolamento verso tendenze autocratiche è indubitabile, e certo simile a quello di altri ordinamenti – sebbene nei contesti dell’Est Europa vengano in rilievo mancate compiute transizioni costituzionali di origine relativamente recente, posteriore al collasso dei sistemi socialisti, mentre in Israele, vedremo specificamente, il fenomeno è più radicato e, se vogliamo, strutturale, ossia relativo ad un programma di costituzionalizzazione frustrato sin da principio.

L’osservazione di tali tendenze è comunque rilevante, e deve condurci ad una connessa, necessaria, e forse più approfondita riflessione, che pure riecheggia teorizzazioni già svolte proprio relativamente alle esperienze di democratic backsliding dei paesi dell’Est Europa e che ben si attagliano alla nostra analisi degli sviluppi israeliani.

Kim Lane Scheppele, nota studiosa di Princeton, ha icasticamente descritto le riforme costituzionali ungheresi degli scorsi anni come una sorta di sindrome di Frankenstein, proprio nel senso del romanzesco personaggio mostruoso di Mary Shelley, capaci di condurre a un «Frankenstate»: ciò al fine di sottolinearne il potenzialmente mostruoso effetto cumulativo, nonostante la possibile opinabilità di alcune di esse, e al fine di dissuadere gli osservatori, in tempo di tendenze globali al democratic backsliding, dal commentare riforme costituzionali simultanee una ad una, partitamente, nei loro aspetti magari innocui o similari ad altre esperienze comparatistiche, senza considerare il disegno complessivo capace di creare per accumulo, appunto, mostruosità costituzionali.

Tale insegnamento è di particolare utilità per l’analisi della proposta riforma in Israele.

Singolarmente prese, e a un occhio profano, le riforme attualmente suggerite possono sembrare relativamente innocenti, o essere vagamente giustificate proprio anche in ottica comparatistica – e ciò è stato puntualmente fatto nel corso del dibattito degli scorsi mesi: in fondo assegnare le nomine giudiziarie apicali al controllo del governo in carica non è soluzione sconosciuta a ordinamenti liberal-democratici, persino prototipici come quello degli Stati Uniti d’America; richiedere una maggioranza speciale in un collegio giudiziale per la censura costituzionale delle leggi parlamentari può essere una soluzione inedita, ma prima facie forse nemmeno irragionevole, al problema storico, già cennato e onnipresente nelle teorizzazioni in materia, della cd. counter-majoritarian difficulty, specialmente sentito ove non si incarichi per disciplina costituzionale positivizzata un organo ad hoc di tale compito, come invece nella tradizione europea; la stessa idea di consentire all’assemblea parlamentare di sovvertire ex post gli effetti delle decisioni giudiziali di illegittimità costituzionale non è esperienza sconosciuta, anzi è ispirata a modelli noti, Canada e Finlandia su tutti, già persino trasposti in via puntiforme in Israele; e le specificità dei ruoli dell’Attorney General nel sistema israeliano, e la potenziale pervasività della sua figura, risultano certo inedite ad uno sguardo d’altrove, e dunque può non sembrare assurdo concepire una riforma di tali aspetti.

È evidente però che la simultanea proposta di tali riforme non sia un caso, e il suo significato vada apprezzato organicamente, nell’interezza: connotandosi dunque, a prescindere dalla opinabilità di alcuni aspetti, come un sicuro affronto all’equilibro nella separazione tra i poteri, e fondato sull’esercizio di un fenomeno pure ormai noto agli studiosi di diritto costituzionale comparato, quello del cd. abusive constitutional borrowing, ossia sull’«appropriazione di modelli, concetti e dottrine costituzionali liberal-democratici, al fine di far avanzare progetti autoritari». Difatti, il successo del diritto costituzionale comparato, conclamatosi negli scorsi decenni, e che ha condotto alla rapida diffusione globale di istituti di marca liberal-democratica, porta con sé possibili dinamiche perverse: tra le quali quella che pare in atto proprio in Israele, come anche in altri ordinamenti, ossia la manipolazione e decontestualizzazione di modelli ed esperienze stranieri, asserviti strumentalmente alla giustificazione di soluzioni che tendono a limitare o corrompere, comunque a strumentalizzare, nozioni e istituti che negli ordinamenti di riferimento hanno avuto e hanno ben altro significato.

 

Per una compiuta disamina sul tema si rinvia a «La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 507.

Che già ha interrotto il denunziato precedente sostanziale dominio da parte dei giudici della Corte suprema nel consesso, considerati sino a quella data capaci di porre in atto una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini (deliberando a maggioranza semplice con il voto, tradizionalmente concorrente, dei rappresentanti dell’avvocatura e/o almeno di alcuni dei rappresentanti politici).

United Mizrahi Bank PLC v. Migdal Cooperative Village (1995) 49 (iv) PD 221.

Ex pluribus T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione della giustizia costituzionale in una democrazia conflittuale, in Giurisprudenza costituzionale, 2000, p. 3543, 3554; Z. Segal, The Israeli Constitutional Revolution: the Canadian Impact in the Midst of a Formative Period, in Forum Constitutionnel, 1997, p. 53, 54; M. Halberstam, Judicial Review, A Comparative Perspective: Israel, Canada, and the United States, in Cardozo Law Review, 2010, p. 2393, 2424; ed estesamente sul raffronto Y. Rabin, A. Gutfeld, Marbury v. Madison and its Impact on the Israeli Constitutional Law, in University of Miami International & Comparative Law Review, 2000, p. 303; criticamente infine M. Troper, Marshall, Kelsen, Barak and the Constitutionalist Fallacy, in International Journal of Constitutional Law, 2005, p. 24.

M. Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, p. 1643, 1652: «È noto che si possono contrapporre due modelli di sviluppo costituzionale: quello britannico dell’evoluzione delle regole fondamentali della convivenza sociale attraverso il graduale sviluppo delle leggi, delle consuetudini, della giurisprudenza, e quello continentale dell’evoluzione attraverso passaggi ordinamentali, rotture della continuità, momenti – cioè – costituenti. L’idea della radicalità di tale contrapposizione, molto diffusa tra Ottocento e Novecento, è in realtà risalente: la ritroviamo, in particolare, nella tesi ciceroniana della superiorità della forma di governo romana (“quam patres nostri nobis acceptam iam inde a maioribus relinquerunt”) proprio in ragione della gradualità dei suoi sviluppi».

Per approfondimenti sulla ricostruzione teorica sottostante v. da ultimo S. Gardbaum, What is Judicial Supremacy?, in G.J. Jacobshon, M. Schor (a cura di), Comparative Constitutional Theory, Cheltenham,, 2018, p. 21.

Secondo la nota locuzione di D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, in Constellations, 2009, p. 429

Cfr. Y. Roznai, Unconstitutional Constitutional Amendments: The Limits of Amendment Powers, Oxford, 2017, e, per riferimenti tradizionali, O. Bachof, Verfassungswidrige Verfassungsnormen?, Tubinga, 1951.

In primis A.M. Bickel, The Least Dangerous Branch: The Supreme Court at the Bar of Politics, New Haven, 1986, specie pp. 34 e ss.; sulla «ossessione» di certa dottrina costituzionalistica, specie nordamericana, per la questione v. B. Friedman, The Birth of an Academic Obsession: The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part Five, in Yale Law Journal, 2002, p. 153.

Per una utile summa in italiano del dibattito in materia può vedersi L. Mezzetti, Teoria della giustizia costituzionale e legittimazione degli organi di giustizia costituzionale, in Estudios Constitucionales, 2010, p. 307.

Si v. ad es. rispetto al paradigma costituito dalla nota Section 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, nella dottrina italiana, G. Gerbasi, Problematiche costituzionali sulla clausola nonobstant di cui all’art. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, in C. Amirante, S. Gambino (a cura di), Il Canada. Un laboratorio costituzionale, Padova, 2000, p. 241.

V. appunto Sez. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms: «33. (1) Parliament or the legislature of a province may expressly declare in an Act of Parliament or of the legislature, as the case may be, that the Act or a provision thereof shall operate notwithstanding a provision included in section 2 or sections 7 to 15 of this Charter. (2) An Act or a provision of an Act in respect of which a declaration made under this section is in effect shall have such operation as it would have but for the provision of this Charter referred to in the declaration. (3) A declaration made under section (1) shall cease to have effect five years after it comes into force or on such earlier date as may be specified in the declaration. (4) Parliament or the legislature of a province may re-enact a declaration made under section (1). (5) Section (3) applies in respect of a re-enactment made under section (4)».

Lo sottolinea opportunamente oggi, discutendo della riforma, R. Ziegler, The British Are Not Coming: Why You Can’t Compare Israel’s Proposed Legal Overhaul to the UK System, in Haaretz, 7.2.2023, disponibile al sito https://www.haaretz.com/opinion/2023-02-07/ty-article-opinion/.premium/the-british-are-not-coming-why-you-cant-compare-israels-legal-overhaul-to-the-uk/00000186-2cdb-d2f6-afe6-3dffe4880000.

Sulla storia dell’istituzione v. da ultimo Y. Sagy, The Missing Link: Legal Historical Institutionalism and the Israeli High Court of Justice, in Arizona Journal of International and Comparative Law, 2014, p. 703.

[15] D. Barak-Erez, Broadening the Scope of Judicial Review in Israel: Between Activism and Restraint, in Indian Journal of Constitutional Law, 2009, p. 118, 119 ss.

[16] Facciamo soprattutto riferimento, a livello di pubblicistica internazionale, ad A. Barak, Judicial Discretion, New Haven, 1989; Id., Forward: A Judge on Judging: The Role of a Supreme Court in a Democracy, in Harvard Law Review, 2002, p. 119; Id., Purposive Interpretation in Law, Princeton, 2005; Id., The Judge in a Democracy, Princeton, 2006, su cui si v. anche H. Neuer, Aharon Barak’s Revolution, in Azure, 1998, p. 5758.

[17] Un modello che è stato definito di «iperattivismo giudiziario», e paragonato per apertura alle istanze sociali al sistema di giustizia costituzionale canadese, da T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione, cit., p. 3557, sulla scorta della definizione di Y. Dotam, Judicial Accountability in Israel: The High Court of Justice and the Phenomena of Judicial Hyperactivism, in Israeli Affairs, 2002, p. 87 ss.

V. HCJ 10042/16 Quantiski v. the Israeli Knesset (Aug. 6, 2017), e il commento di Y. Bar-Siman-Tov, In Wake of Controversial Enactment Process of Trump’s Tax Bill, Israeli SC Offers a Novel Approach to Regulating Omnibus Legislation, in International Journal of Constitutional Law Blog, 13.12.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/12/in-wake-of-controversial-enactment-process-of-trumps-tax-bill-israeli-sc-offers-a-novel-approach-to-regulating-omnibus-legislation/.

V. HCJ 8260/16 The Academic Center for Law & Business v. Israeli Knesset (Sept. 6,2017), e le riflessioni di S. Navot, Y. Roznai, From Supra-Constitutional Principles to the Misuse of Constituent Power in Israel, in European Journal of Law Reform, 2019, p. 403.

Giacché il suo ruolo è positivizzato tanto nella Basic Law: the Judiciary (1984) che nella Basic Law: the Government (2001).

Sulla figura in extenso E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, Torino, 2006, p. 111.

J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, in Verfassungsblog, 1.2.2023, disponibile al sito https://verfassungsblog.de/cry-beloved-country/.

Cfr. in merito E. Ottolenghi, Profili storici e A.M. Rabello, Costituzione e fonti del diritto, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 11 ss.; G. Tedeschi, Le Centenaire de la Mejelle, in Revue internationale. de droit comparé, 1969, p. 125.

Sul punto cfr. la ricostruzione recente di D. Ellenson, The Supreme Court, Yeshiva Students, and Military Conscription: Judicial Review, the Grunis Dissent, and its Implications for Israeli Democracy and Law, in Israel Studies, 2018, p. 197.

D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit.

Ivi, 440.

D. Friedmann, The Purse and the Sword: The Trials of Israel’s Legal Revolution, Oxford, Oxford University Press, 2016: su cui, criticamente e in chiave comparatistica, F.I. Michelman, Israel’s “Constitutional Revolution”: A Thought from Political Liberalism, in Theoretical Inquiries in Law, 2018, p. 745.

Il riferimento è ovviamente all’antecedente del Judicial Procedures Reform Bill of 1937 nordamericano, con cui il Presidente Franklin D. Roosevelt si propose di emendare le procedure di selezione dei giudici della Corte suprema U.S.A. al fine di ottenere giudizi più favorevoli rispetto alla legislazione sul New Deal; per una recente ricostruzione storica in materia, si v. J. Braver, Court-Packing: An American Tradition?, in Boston College Law Review, 2020, p. 2747.

D. Izenberg, Friedmann Urges Revamping Judges Selection Committee, in Jerusalem Post, 27.3.2007, disponibile al sito www.jpost.com/israel/friedmann-urges-revamping-judges-selection-committee.

C. Price, Israel Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org – Legal News and Commentary, 7.9.2008, disponibile al sito www.jurist.org/news/2008/09/israel-cabinet-backs-bill-restricting/.

HCJ 7052/03 Adalah v. Minister of the Interior (2006) 2 TakEl 1754.

D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.

Su cui v. O Aronson, The Democratic Case for Diffuse Judicial Review in Israel, cit., e, volendo, L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, in D. Butturini, M. Nicolini (a cura di), Giurisdizione costituzionale e potere democraticamente legittimato, vol. II, Bologna, Bononia University Press, 2017, p. 183.

D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.

A. Bottorf, Israel Bill Would Allow Parliament to Overturn Supreme Court Decisions Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org – Legal News and Commentary, 9.4.2012, disponibile al sito www.jurist.org/news/2012/04/israel-bill-would-allow-parliament-to-overturn-supreme-court-decisions.

Si v. criticamente A. Harel, The Israeli Override Clause and the Future of Israeli Democracy, in Verfassungsblog – On Matters Constitutional, 15.5.2018, disponibile al sito verfassungsblog.de/the-israeli-override-clause-and-the-future-of-israeli-democracy.

Y. Levy Ariel, Judicial Diversity in Israel: An Empirical Study of Judges, Lawyers and Law Students, tesi dottorale depositata alla Faculty of Laws, University College London, disponibile al sito www.ucl.ac.uk/judicial-institute/sites/judicial-institute/files/judicial_diversity_in_israel.yla__1.pdf, p. 50 ss.

E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 79 ss.

M. Mautner, Law and the Culture of Israel, Oxford, 2011, p. 159 ss.

J. Ari Gross, Bills to ban hametz, expand powers of rabbinic courts breeze through committee, in Times of Israel, 19.2.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/bills-to-ban-hametz-expand-powers-of-rabbinic-courts-breeze-through-committee/.

A. Obel, M. Bachner, Two Likud MKs back Gallant’s call to pause overhaul; others urge PM to fire him, in Times of Israel, 26.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/several-likud-mks-back-gallants-call-to-pause-overhaul-others-urge-pm-to-fire-him/.

J. Federman, Israel’s Netanyahu pressed to sign conflict-of-interest deal, in Associated Press News, 10.9.2020, disponibile al sito https://apnews.com/article/trials-israel-virus-outbreak-benjamin-netanyahu-910eaed8d1ad6e8d985858c55931450e.

I. Debre, Israeli AG warns Netanyahu broke law on conflict of interest, in Associated Press News, 24.3.2023, disponibile al sito https://apnews.com/article/israel-netanyahu-politics-judicial-overhaul-protests-crisis-courts-aefbf9607a6e3a0e1bb5e3355e733043.

T. Stann, L. Kerrer-Lynn, Knesset passes law shielding Netanyahu from court-ordered recusal 61-47, in Times of Israel, 23.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/knesset-passes-law-shielding-netanyahu-from-recusal-in-61-47-final-vote/.

J. Magid, Supreme Court bans extreme-right Gopstein and Marzel from elections, in Times of Israel, 26.8.2019, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/supreme-court-bans-extreme-right-gopstein-and-marzel-from-election-race/.

J. Sharon, AG: Deri’s appointment as minister ‘unreasonable in the extreme’, in Times of Israel, 4.1.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/ag-deris-appointment-as-minister-unreasonable-in-the-extreme/.

Si v. organicamente il report di D. Scheindlin, The Assault on Israel’s Judiciary, in The Century Foundation, 7.7.2021, disponibile al sito tcf.org/content/report/assault-israels-judiciary.

C. Levinson, Netanyahu Seeks to Clamp Down on Human-rights Groups and Bar Funding from Foreign States, in Haaretz, 11.6.2017, disponibile al sito www.haaretz.com/israel-news/1.795078.

Mediante un inedito accordo di coalizione che vincolava ogni parlamentare dei partiti di maggioranza al voto conforme agli indirizzi presi dal Committee ministeriale: lo rileva G. Stopler, Special Symposium–Part 2 of 7: Constitutional Capture in Israel, in International Journal of Constitutional Law Blog, 21.8.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/constitutional-capture-israel.

N. Mordechay, Y. Roznai, A Jewish and (Declining) Democratic State? Constitutional Retrogression in Israel, in Maryland Law Review, 2017, p. 244, 257: «Governmental powers and government departments are concentrated in the hands of Prime Minister Netanyahu, reducing the weight of his coalition partners. At a certain point, Prime Minister Netanyahu has simultaneously been Israel’s Prime Minister, Foreign Minister, Communications Minister, Economy Minister, and Regional Cooperation Minister». La stessa Corte suprema fu investita, quale Alta Corte di giustizia, della questione, giudicata legittima nella sua transitorietà sebbene, espressamente, non opportuna: v. HCJ 3132/15 Yesh Atid v. Prime Minister of Israel (Apr. 13, 2016) (Isr.).

Si v. almeno l’interessante dibattito online Symposium: Constitutional Capture in Israel? ospitato sulle pagine dell’International Journal of Constitutional Law Blog tra il 20.8.2017 e il 26.8.2017, la cui introduzione è disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/introduction-to-i-connecticon-s-il-symposium-constitutional-capture-in-israel/, nonché in italiano, volendo, L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, Padova, 2022.

A. Huq, T. Ginsburg, How to Lose a Constitutional Democracy, in UCLA Law Review, 2018, p. 78, 118: «Drawing on comparative law and politics analysis of these cases, we then extract five specific mechanisms by which constitutional retrogression unfolds. These are: (i) constitutional amendment; (ii) the elimination of institutional checks; (iii) the centralization and politicization of executive power; (iv) the contraction or distortion of a shared public sphere; and (v) the elimination of political competition».

Cfr. almeno L. Pech, K.L. Scheppele, Illiberalism Within: Rule of Law Backsliding in the EU, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2017, p. 3, e, in italiano, G. Delledonne, Ungheria e Polonia: punte avanzate del dibattito sulle democrazie illiberali all’interno dell’Unione Europea, in DPCE online, 2020, p. 3999.

E.S. Tănăsescu, The independence of justice as proxy for the rule of law in the EU – Case study – Romania, in Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 1/2021, p. 103.

M. Kremintzer, Y. Shany, Illiberal Measures in Backsliding Democracies: Differences and Similarities between Recent Developments in Israel, Hungary, and Poland, cit., 152: «it can be noted that the similarities in the measures taken across different legal and political systems, in radically different historical contexts, suggests not only some degree of commonality in ideas and goals, but also some sharing of experiences and practices by illiberal forces».

Cfr. per un inquadramento, tra i vari, L. Mezzetti, Corrosione e declino della democrazia, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2019, p. 441.

K.L. Scheppele, The Rule of Law and the Frankenstate: Why Governance Checklists Do Not Work, in Governance. An International Journal of Policy Administration and Institutions, 2013, p. 559.

Lo sottolinea opportunamente anche J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, cit.

A livello comparato, la previsione dei relativi poteri «expressis verbis in costituzione» è, o dovrebbe essere, la caratteristica fondamentale dei cd. sistemi accentrati di giustizia costituzionale: v. A.R. Brewer-Carias, Judicial Review in Comparative Law, Cambridge, 1989, p. 188; seppure proprio il caso di Israele sia una possibile eccezione, cfr. volendo L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, cit.

La Basic Law: Freedom of Occupation, emanata nel 1992, fu emendata già nel 1994, su pressione dei partiti religiosi, proprio in esito ad un primo suo sensibile impiego giudiziale, quando, nel caso Mitral Ltd. v. The Prime Minister, 47(5) P.D. 485 (1993) la Corte suprema stabilì la violazione della legge fondamentale in parola da parte della legislazione ordinaria che poneva limiti all’importazione in Israele di carne non kosher, ossia non macellata secondo le regole ebraiche tradizionali. In esito a quella riforma, subito successiva alla pronunzia giudiziale, anche quella Basic Law fu dotata di una notwithstanding clause, che disponeva: «(A) provision of a law that violates freedom of occupation shall be of effect, even though not in accordance with section 4, if it has been included in a law passed by a majority of the members of the Knesset, which expressly states that it shall be of effect, notwithstanding the provisions of this Basic Law; such law shall expire four years from its commencement unless a shorter duration has been stated therein». Si dotò dunque il parlamento dell’ultima parola in tema di costituzionalità di una normativa in materia, purché mediante votazione a maggioranza assoluta e con una disciplina necessariamente a termine quanto ai suoi effetti.

R. Dixon, D. Landau, Abusive Constitutional Borrowing: Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford, 2021, p. 1 ss.: «Legal globalization has a dark side: norms intended to protect and promote liberal democratic constitutionalism can often readily be used to undermine it. Abusive constitutional borrowing involves the appropriation of liberal democratic constitutional designs, concepts, and doctrines to advance authoritarian projects. Some of the most important hallmarks of liberal democratic constitutionalism—including constitutional rights, judicial review, and constituent power—can be turned into powerful instruments to demolish rather than defend democracy».

Cfr. in tal ottica T. Groppi, Il diritto comparato nel prisma delle regressioni democratiche. Recensione al volume di Rosalind Dixon e David Landau, Abusive Constitutional Borrowing. Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford University Press, 2021, in Diritticomparati.it, 28.9.2022, disponibile al sito https://www.diritticomparati.it/il-diritto-comparato-nel-prisma-delle-regressioni-democratiche-recensione-al-volume-di-rosalind-dixon-e-david-landau-abusive-constitutional-borrowing-legal-globalization-and-the-subversion-of-liber/.



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