A distanza di quasi un decennio dal tentato omicidio di Vito Bruno Lanza, la giustizia scrive un nuovo capitolo sulla guerra di mafia che ha insanguinato Foggia tra il 2015 e il 2016. Il giudice dell’udienza preliminare di Bari, Alfredo Ferraro, ha depositato le motivazioni della sentenza che ha condannato il boss Roberto Sinesi detto “Lo zio” a 16 anni di carcere per essere stato il mandante dell’agguato contro il capo clan rivale.
Dalla sentenza emergono dettagli significativi che rafforzano l’impianto accusatorio nei confronti di Sinesi e degli altri condannati. Il giudice Alfredo Ferraro, nelle motivazioni, ha evidenziato cinque elementi chiave che dimostrerebbero la responsabilità del boss nel tentato omicidio di Vito Bruno Lanza alias “U’ lepre”, membro del clan Moretti-Pellegrino-Lanza e storico esponente della Società Foggiana, avvenuto il 17 ottobre 2015 sulla circonvallazione di Foggia.
Le prove che inchiodano Sinesi
Nel documento di oltre 30 pagine, il giudice spiega che la colpevolezza di Sinesi emerge da una combinazione di dichiarazioni di pentiti, intercettazioni e riscontri oggettivi. Tra i principali elementi probatori, viene citato il ruolo del collaboratore di giustizia Giuseppe Francavilla alias “Pino capellone”, che non solo si è autoaccusato del proprio coinvolgimento nell’agguato, ma ha anche indicato Sinesi come mandante, spiegando nel dettaglio la dinamica dell’attentato.
Francavilla, all’epoca dei fatti vertice della batteria Sinesi-Francavilla, ha raccontato di aver messo a disposizione un suo uomo, Sergio Ragno, per eseguire il piano, oltre ad aver fornito una delle armi usate per il ferimento di Lanza. Secondo il giudice, il suo ruolo di alto livello nel clan legittima la sua conoscenza del progetto omicidiario, escludendo l’ipotesi che potesse essere un semplice esecutore senza informazioni dirette.
Fondamentale anche un’intercettazione ambientale registrata nella stanza d’ospedale dove era ricoverato Lanza dopo l’agguato. Già nelle ore successive all’attacco, il boss ferito espresse il sospetto che il mandante fosse proprio Sinesi, circostanza poi confermata dalle indagini successive.
“Lo zio ha detto che ce lo andiamo a mangiare”
Uno degli elementi più rilevanti citati in sentenza è un’intercettazione del 9 ottobre 2015, pochi giorni prima dell’attentato. Luigi Biscotti, nipote di Sinesi, parlando con un interlocutore faceva riferimento al piano per uccidere Lanza, dicendo: “Lo zio ha detto che ce lo andiamo a mangiare domani? Noi a quello lo teniamo sotto tiro”. Biscotti e un altro sodale, Ciro Spinelli, vennero poi condannati con l’accusa di essere stati gli esecutori materiali dell’agguato.
Secondo il giudice, questo dialogo dimostra chiaramente che l’ordine di colpire Lanza proveniva da Sinesi, identificato come “lo zio” nel linguaggio del clan. Il riferimento a “tenerlo sotto tiro” conferma inoltre che il commando di fuoco aveva già iniziato a monitorare i movimenti del bersaglio nei giorni precedenti l’attacco.
Una guerra di mafia senza esclusione di colpi
Nelle motivazioni della sentenza, il giudice sottolinea che l’attentato si inserisce in un contesto più ampio di guerra tra clan, scoppiata nel 2015 tra la batteria Sinesi-Francavilla e il gruppo Moretti-Pellegrino-Lanza. In appena 13 mesi, questa faida ha portato a 10 sparatorie, 3 omicidi e 11 feriti/scampati, trasformando Foggia in un teatro di sangue.
Il movente dell’agguato a Lanza viene individuato nella necessità di vendicare l’attacco subito un mese prima da un affiliato di Sinesi, Mario Piscopia, e nel tentativo di rafforzare il potere della batteria eliminando un capo del clan rivale. “La sovrapposizione tra legami personali e dinamiche mafiose”, scrive il giudice, “rende più sfumato il confine tra vendetta e consolidamento del potere”, confermando che l’omicidio avrebbe avuto una duplice valenza.
La strategia della difesa: “Francavilla voleva scalzare Sinesi”
Se per il giudice il quadro probatorio è solido, la difesa di Sinesi ribalta completamente la prospettiva. Secondo i legali, Giuseppe Francavilla non è un testimone attendibile, in quanto avrebbe orchestrato un complotto per screditare Sinesi e prendere il controllo del clan.
Nel ricorso in appello, la difesa sostiene che il pentimento di Francavilla non sarebbe “genuino” o per un reale senso di giustizia, ma perché temeva una guerra interna con il cugino Antonello Francavilla, con il rischio di subire pesanti condanne per altri reati di sangue.
Un altro elemento su cui punta la difesa è il ruolo ambiguo che Francavilla avrebbe avuto durante la guerra di mafia. Una sorta di doppiogiochista che si sarebbe proposto come mediatore tra i clan, ma in realtà alimentando tensioni per trarne vantaggio. Secondo questa versione, Francavilla avrebbe usato la guerra tra le batterie rivali per eliminare Sinesi e prenderne il posto al vertice dell’organizzazione.
Si va in appello
La sentenza che condanna Roberto Sinesi a 16 anni di carcere rappresenta un passaggio cruciale nella ricostruzione delle dinamiche criminali foggiane. Per il giudice, le intercettazioni e le testimonianze dei pentiti confermano il suo ruolo di mandante nell’attentato a Vito Bruno Lanza.
Ma la battaglia giudiziaria non è ancora conclusa. Con il ricorso in appello già annunciato, la difesa tenterà di ribaltare il verdetto, puntando sull’inattendibilità di Francavilla e sulla sua presunta ambizione di scalzare Sinesi dal comando della batteria. Il prossimo capitolo di questa storia si scriverà nelle aule della Corte d’Appello.
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