All’interno di una comunità, ragazzi giovani con un passato che li ha visti protagonisti anche di atti di devianza e di microcriminalità, spesso segnato da scelte sbagliate cercano di ritrovare la strada giusta. Il percorso di reinserimento è complesso, ma può riservare risultati sorprendenti. Grazie al supporto di educatori e altre figure professionali, imparano a convivere con i coetanei, rispettando regole fondamentali per la loro crescita. Alcuni riescono ad adattarsi più facilmente, mentre altri necessitano di più tempo. Altri ancora, purtroppo, non ce la fanno. In ogni caso, la comunità rappresenta un punto di riferimento essenziale, offrendo a questi ragazzi l’opportunità di ricostruire il proprio futuro.
Abbiamo avuto il piacere di conversare con Samanta Bernazzoli, responsabile della comunità Archè situata a Bedonia, per approfondire l’organizzazione della vita quotidiana dei ragazzi ospitati. Dall’analisi dei loro atteggiamenti nei primi giorni di accoglienza alle attività pensate per favorire l’integrazione, è emersa anche la complessità del percorso di recupero e reinserimento sociale.
Come si riconoscono i comportamenti tipici da baby gang?
I comportamenti sicuramente tipici di ragazzi sono quelli che ci capita anche di vedere in televisione, nelle grandi città soprattutto. Questi ragazzi si distinguono perché fanno soprattutto parte di gruppi omogenei che hanno un dialogo omogeneo. Sono uniformi anche nell’abbigliamento e nei luoghi di ritrovo. Come caratteristiche tipiche quando arrivano sono abbastanza aggressivi quindi non conoscono il limite. Non tollerano la frustrazione e quindi sono difficilmente avvicinabili. Sono al centro dei social e si devono distinguere. Chiedono ai genitori sempre cose firmate quindi basano tutto sull’ apparire: i vestiti firmati e tutti i mesi il taglio di capelli particolare. Non facciamo distinzione di genere. Stranieri e italiani tra di loro stanno spesso assieme.
Come ci si comporta con questi ragazzi nel momento in cui entrano nella comunità? E nel caso in cui ci sia un ‘ritorno’ per reiterazione?
Per quanto riguarda i ragazzi che provengono dal penale, il giudice decide di collocarli in comunità e gli impone tutta una serie di prescrizioni alle quali loro devono attenere rigorosamente. Quindi: non utilizzo dei social; non utilizzo del telefono; non poter uscire da soli se non accompagnati. Il rispettare le regole della comunità è il nostro leitmotif. All’inizio sicuramente c’è una fase di osservazione e quindi si cerca di trovare un’empatia con loro per avvicinarli, che ritengo una cosa fondamentale. Nei casi in cui la situazione si riveli fallimentare, spesso sono costretti a rientrare nel contesto carcerario. Ognuno di loro ha un’età diversa e un percorso diverso. C’è chi segue la scuola più o meno regolarmente; ci sono degli educatori che li affiancano nel percorso scolastico. Abbiamo avuto anche dei ragazzi che avevano tutti 10 a scuola. Sono stati realizzati anche dei progetti con la scuola stessa: mi viene in mente il progetto dell’orto, dove è stato loro insegnato come coltivare un orto. Trattandosi di una comunità situata in un piccolo paese, i ragazzi che vogliono provare a scappare fanno molta più fatica rispetto alla città: nelle città sono difficilmente rintracciabili, mentre qua è più facile ritrovarli.
Quali sono le attività che vengono svolte all’interno della comunità con questi ragazzi? Come funziona l’integrazione con i ragazzi/e già presenti?
Una prerogativa per qualsiasi comunità integrata è avere a disposizione uno psicologo. Lo psicologo è una figura molto importante, svolge dei lavori sia di gruppo che individuali. Ci sono diverse attività ricreative: il gruppo di musica, il gruppo di disegno, il gruppo di ballo; alcuni ragazzi praticano anche lo yoga. Durante l’inverno è un po’ più strutturato internamente: c’è la palestra o il campo calcio. D’estate spesso andiamo al mare o al fiume. Tutti gli anni li portiamo in vacanza. Quando si trovano nei contesti dove ci sono più persone, li si sono sempre comportati molto bene, tanto che non si sarebbe mai pensato dall’esterno che appartenessero a una comunità. Anche se vengono da ambienti diversi, carceri diversi, da città diverse, tra di loro si riconoscono e fanno gruppo. Cucinano insieme all’educatore a pranzo, si occupano della comunità come se fosse la loro casa, insomma vivono come fossero una grande famiglia e soprattutto imparano ad essere autonomi e indipendenti. Quindi, questo rappresenta un importante lavoro di reinserimento e rieducazione perché spesso i ragazzi che arrivano qui non sanno arrangiarsi.
Quanto è difficile il recupero e il reinserimento sociale per questi ragazzi? Può succedere che un ragazzo uscito dalla comunità torni a commettere reati?
Il reinserimento è molto difficile e complicato. Spesso dipende anche dal contesto in cui i ragazzi si trovano. Questo è un fattore fondamentale: spesso ragazzi che sono scappati da altre comunità, tanto per fare un esempio, sono arrivati da noi e sono rimasti due anni, senza mai commettere un’infrazione. A volte invece ragazzi con ben più alte aspettative alla fine sono scappati e sono ritornati a delinquere dopo due settimane. Il lavoro dell’equipe incide molto sul percorso di rieducazione. Anche solo il mangiare tutti insieme senza il cellulare, ad esempio. Poi una volta usciti da noi, viene tutto il resto. La famiglia è importante, si deve risalire a volte anche al contesto familiare: che tipo di famiglia abbiamo alle spalle? la famiglia poi sarà in grado una volta rientrato di in qualche modo gestire il ragazzo? spesso ciò non avviene e quindi i ragazzi appena usciti tornano a delinquere. Spesso fanno fatica a rientrare nel proprio paese, a causa di un’etichetta che difficilmente riescono a togliersi. Non sanno come far capire agli altri che non sono più la stessa persona. Per rimediare a ciò, spesso questi ragazzi si trasferiscono da parenti all‘estero.
E invece quando vi capita di avere a che fare coi genitori dei ragazzi, che impressione avete su di loro? Esprimono pieno sostegno verso i figli?
Qua i progetti, come dico sempre, funzionano se c’è un genitore che collabora con noi. Se i genitori vanno contro di noi allora la situazione si complica. Invece, i progetti funzionano quando il genitore si affida al nostro modo di operare. Così facendo fa capire al figlio che non decide più lui da solo ma si decide tutti insieme nella trasparenza. Non ci sono sotterfugi tra il genitore e il proprio figlio dentro la comunità. L’ideale sarebbe che questi schemi si applicassero poi anche nella realtà. Purtroppo, però, il disagio molto spesso viene anche da una situazione a casa che non funzionava e dove i genitori già facevano fatica a gestire i ragazzi.
Quali attività e/o iniziative (a livello anche scolastico) possono prevenire la devianza dei ragazzi e il formarsi di queste band giovanili?
Sicuramente in un paese piccolo è più difficile ma non impossibile. Chiaramente, c’è da fare un lavoro a monte di responsabilizzazione, perché come dicevo prima, sono ragazzi che non sanno più aspettare; sono molto aggressivi e vogliono tutto e subito. Quando, ad esempio, il genitore deve mandare una scarpa firmata non sanno aspettare e danno via di matto. Spesso ci troviamo a relazionarci con gli insegnanti della scuola, collaboriamo molto bene col preside, abbiamo persino fatto dei convegni sulla devianza. Anche la scuola oggi si ritrova in mano una bella responsabilità. Il grosso del problema risiede nei social, nell’immagine, nella visione distorta del mondo. Non ce l’hanno tutti questa visione sia chiaro. Abbiamo avuto ragazzi e ne abbiamo ancora oggi che invece poi alla fine riescono a ribaltare la situazione. I santi non si riescono a fare, e non credo neanche i genitori ci riescano. Per chi non rispetta il regolamento c’è il ritorno in carcere. C’è da dire che negli anni mi è capitato di vedere dei ragazzi cambiare la loro vita. Però, in percentuale sono molto pochi.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link