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Mario Draghi è lo Zenone dell’Unione Europea. Nonostante i veti incrociati tra gli Stati che la compongono rendano molto difficile, se non impossibile, la creazione di un debito comune, di un mercato unico dei capitali e l’investimento di più di 800 miliardi di euro all’anno, Draghi vuole affermare la realtà della sua idea presentata come l’unica via per portare l’Europa a partecipare alle guerre tra le grandi potenze mondiali, Usa e Cina in primo luogo. Chiamiamolo il paradosso di Draghi: tanto più è difficile risolvere il suo rebus, tanto più l’ex presidente del Consiglio e della Bce insiste nella sua filosofia. Questo per lui è un altro appello per salvare l’Europa divisa tra gli interessi degli Stati-Nazione e gli imperi conflittuali. Lo ha scritto nel suo «rapporto sulla competitività», lo ha ripetuto ieri con i consueti toni ultimativi.
«È SEMPRE PIÙ CHIARO che l’Unione Europea deve pensarsi sempre di più come se fosse un unico stato – ha detto Draghi a Bruxelles dove è in corso la settimana parlamentare europea 2025 – La complessità della risposta politica che coinvolge ricerca, industria, commercio e finanza richiederà un livello di coordinamento senza precedenti tra tutti gli attori: governi e parlamenti nazionali, Commissione e Parlamento europeo». «Quando [ho] scritto il rapporto sulla competitività il tema geopolitico principale era l’ascesa della Cina. Ora, la Ue dovrà affrontare i dazi imposti dalla nuova amministrazione statunitense nei prossimi mesi, ostacolando il nostro accesso al nostro più grande mercato di esportazione». «In futuro potremmo anche affrontare politiche ideate per attrarre le aziende europee a produrre di più negli Stati Uniti, basate su tasse più basse, energia più economica e deregolamentazione. E possiamo aspettarci di essere lasciati in gran parte soli a garantire la sicurezza in Ucraina e nella stessa Europa. Oggi il mondo confortevole che ha garantito pace, sicurezza, democrazia e sovranità è finito. Dobbiamo chiederci difendere questi valori essenziali o dovremmo andarcene, ma per andare dove?».
MENTRE DRAGHI svolgeva la requisitoria era in corso, sempre a Bruxelles, l’Ecofin dei ministri economici. Loro hanno convenuto su un unico punto: aumentare le spese militari e forse creare economie di scala, aumentare i profitti delle industrie dei cannoni, tagliare il Welfare. Quest’ultimo potrebbe essere salvato per Draghi con la crescita della produttività, l’unione dei capitali, gli investimenti dei «300 miliardi di risparmi che vanno negli Stati Uniti» che garantiscono maggiori interessi alle rendite europee.
DALL’ECOFIN non è arrivata alcuna risposta a Draghi sul problema di un «debito pubblico comune». Ipotesi velleitaria ma presentata come una necessità per l’Italia. Tuttavia l’intoccabile «patto di stabilità» nega lo spazio fiscale sia per rifornire i fabbricanti di missili, sia per finanziare le imprese tramite il capitale azionario e non solo con i prestiti bancari «come accade in Svezia». Se il debito comune è escluso, allora saranno i cittadini a rimpinguare le tasche dei produttori di armi Usa. Questo è un altro paradosso del Draghi-Zenone: cambiare la «governance» dell’Ue, ma non una delle ragioni strutturali che impediscono di realizzare gli investimenti. Draghi sa che l’austerità non cambierà. Ci sarà un’eccezione per le armi, si vedrà il modo. Ma si continuerà a contenere la spesa sociale, i salari, la domanda interna.
DRAGHI NON HA ESCLUSO che la futuribile crescita dell’Europa sarà basata sul complesso militare per il quale chiede l’aumento della capacità produttiva. Tale sviluppo dipende a suo avviso da una trasformazione complessiva del mercato unico delle piccole e medie imprese e di quello finanziario, oltre che dalla sburocratizzazione tariffaria e commerciale tra gli Stati. Una simile combinazione di fattori, ha aggiunto Draghi, «ha permesso negli ultimi 15-20 anni al governo americano di iniettare nell’economia più di 14 mila miliardi di dollari mentre la Ue ha fatto sette volte di meno». «Ciò dimostra che per crescere di più a volte servono anche soldi pubblici, ma bisogna anche creare le condizioni affinché i soldi privati siano produttivi».
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