di Aurelio Musi
Sulla spinta della storiografia regionale francese a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso anche in Italia sono state pubblicate molte storie regionali. Dopo la “Storia d’Italia” Einaudi, diretta da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, fortunata operazione che costituì uno spartiacque nella vicenda dell’editoria italiana inaugurando e dando vita alla formula delle Grandi Opere, lo stesso editore pubblicò le “Regioni d’Italia”, dedicate alla loro storia successiva all’unificazione della nazione. L’iniziativa era sollecitata soprattutto dalla nascita nel 1970 della nuova istituzione politico-amministrativa che doveva attuare il dettato della Carta costituzionale e concretizzare attraverso nuove forme il previsto decentramento.
Già in anni precedenti, e precisamente nel 1967, Giuseppe Galasso aveva pubblicato un’opera destinata a rappresentare un precedente fondamentale e un punto di riferimento per la storiografia regionale italiana: “Economia e società nella Calabria del Cinquecento”. Essa, pur ispirandosi in parte ai modelli francesi e assumendo un analogo schema di articolazione della materia – demografia, geografia feudale e organizzazione del territorio, economia agraria e produzione di beni non agricoli, società – se ne distaccava soprattutto per l’attenzione e la sensibilità verso la dinamica delle classi, delle lotte di classe, la dialettica del potere locale, il ruolo della Chiesa. In sostanza l’opera dello storico napoletano da una parte metteva a frutto le novità metodologiche della scuola francese delle “Annales”, ma dall’altra le inquadrava entro l’eredità della migliore tradizione della storiografia italiana.
Il problema storico delle regioni italiane è stato uno degli oggetti prevalenti di analisi del geografo Lucio Gambi. Egli ha scritto che la regione come entità umana è creatura di storia, il sapere geografico è insieme geografia fisica, ecologia e geografia umana. Per il caso italiano Gambi ha chiarito nei suoi studi che solo alcune regioni, in prevalenza al Nord e al Centro dell’Italia, presentano una condizione di relativa corrispondenza tra regione storica e regione naturale, dando vita a quella che il geografo ha chiamato “regione funzionale”. In gran parte del Mezzogiorno il ritaglio delle regioni è stato operato per via amministrativa: la “regione giurisdizionale” non ha così corrisposto pienamente alla regione storica.
Il combinato disposto del pensiero storico di Galasso e del pensiero geografico di Gambi è utile per ricostruire la storia della Campania: una regione particolarmente complessa che è stata insieme il territorio di nascita e sviluppo di una “nazione napoletana” e il prodotto di un “ritaglio giurisdizionale” (Gambi) non pienamente corrispondente a permanenze e sviluppi della regione storica formata dalle tre province più risalenti di Terra di Lavoro, Principato Citra e Principato Ultra e dalla capitale Napoli.
Il Ministero della Cultura e il COSME (Centro Osservatorio sul Mezzogiorno d’Europa) hanno dato vita a una nuova collana dedicata alle regioni italiane. Dopo il volume sulla Puglia è ora la volta di “La Campania. Un profilo per i beni culturali”, a cura di Giuseppe Cirillo, Maria Anna Noto, Giulio Sodano (Roma 2024).
Qui cambia la prospettiva rispetto al tradizionale approccio alla storia regionale. Alla consueta articolazione della materia così come suggerito dalla storiografia francese e dai più recenti studi di storia regionale italiana che, in sostanza, ricostruiscono spazi e tempi dell’evoluzione del territorio, le sue permanenze e i suoi sviluppi, è qui sostituita una diversa ispirazione di fondo che conferisce unità agli oggetti di osservazione: lo studio del paesaggio come bene culturale cioè come una nuova endiadi che unisce elementi materiali ed immateriali, e che, attraverso la ricerca, reca un contributo decisivo alla costruzione dell’identità e alla valorizzazione del territorio. Essa rappresenta una radicale novità rispetto all’approccio tradizionale che ha assunto come modello in prevalenza le storie regionali francesi, ispirate all’orientamento delle Annales. L’opera che qui si presenta è soprattutto il tentativo di applicare in concreto le più recenti direttive Unesco sul paesaggio entro una prospettiva europea.
Il saggio di Maria Anna Noto sui “luoghi della vita” getta un occhio particolare alle città della Campania, alla morfologia risalente e ancora resistente dei suoi centri urbani, sedi del vivere in comunità, ma anche strutture organizzate di potere: un contributo utile agli operatori politici e agli amministratori locali per valorizzarne identità e prospettive di sviluppo economico e civile.
I beni culturali parlano attraverso le tante testimonianze artistiche e le notazioni dei viaggiatori nel saggio di Rosanna Cioffi. L’approccio originale consente al lettore di tenere insieme antico, moderno, postmoderno, la memoria non sempre rispettata dei tanti beni culturali della Campania. Il contributo della Cioffi va letto in stretta associazione a quello su cinema e fotografia di Giulio Brevetti. L’autore propone un’interessante periodizzazione in tre fasi: la prima, “l’età d’oro del cinema campano”, dalla fine dell’Ottocento agli anni Trenta del secolo successivo; la seconda, fino ai Sessanta; la terza, fino ad oggi, caratterizzata dal trionfo del realismo.
L’identità regionale in Italia e fuori d’Italia, trasmessa dalla dieta mediterranea, è oggetto dei saggi di Giuseppe Cirillo e di Eugenio Zito. “Vettori materiali e immateriali” si intrecciano a costituire l’identità della Campania attraverso la triade della dieta mediterranea: pasta – pomodoro – pizza. E’ in Campania che si “scopre” la dieta mediterranea: una “filosofia di vita” per prevenire l’epidemia di obesità, capace di costituire un ponte tra passato e futuro.
Il riuso della memoria individuale e collettiva è la proposta di Fulvio D’Aloisio. Il centro è costituito dall’analisi dell’identità industriale di un’area della regione, l’agro nocerino-sarnese, dai primi dell’Ottocento alle dismissioni del 1992. Il metodo è quello della ricerca sul campo.
Paologiovanni Maione disegna un potente affresco teso ad illustrare alcune permanenze del linguaggio musicale campano e i suoi tesori consegnati all’Europa: la notazione beneventana con le influenze bizantine; la musica come manifestazione della regalità dagli Angioini ai Borbone che, col teatro di San Carlo, creano la vetrina della Corte; il mecenatismo aristocratico; la pluralità di linguaggi sperimentali dalla canzone villanesca al madrigale all’opera buffa; le tante scene della società napoletana.
L’identità campana e il rapporto fra il primato della capitale e la provincializzazione del suo territorio nei tre nuclei storici più importanti, Principato Citeriore, Ulteriore e Terra di Lavoro, sono al centro del ricco contributo di Giulio Sodano sulla religiosità. I casi di san Gennaro, con la sua non incombente e piuttosto tardiva presenza, e di san Gaetano, dipendente dalla diffusione dell’Ordine teatino, dimostrano che questi culti sono circoscritti al perimetro della capitale. Le province affermano forme autonome di identità religiosa e devozionale. E’ il culto mariano piuttosto a costituire il tratto unificante della religiosità campana: basti pensare alla diffusione dei santuari mariani in tutto il territorio regionale.
Un altro elemento di originalità è la possibilità di leggere e analizzare questo testo attraverso incroci, sovrapposizioni, rinvii tra i differenti contributi, resi a volte più semplici, immediati e scoperti per l’analogia dell’oggetto e della materia, a volte latenti, meno espliciti, ma resi altrettanto possibili da un’analisi più approfondita. Amalia Franciosi ricostruisce la genesi e la storia della principale arteria stradale del Sud tra Campania e Calabria e il saggio di Francesco Cotticelli è dedicato al teatro. Entrambi hanno come sfondo la romanizzazione della Campania. Il primo, attraverso il riferimento alla fonte Lapis Pollae, offre un prototipo di lettura delle trasformazioni del paesaggio a partire dall’epoca della repubblica romana. L’affascinante contributo di Cotticelli prende l’avvio dal teatro romano dell’Anticaglia alla scoperta delle tracce di Neapolis, della Campania felix: le tante stratificazioni nello spazio e nel tempo della civiltà dello spettacolo sono uno dei segni più importanti dell’identità di Napoli. E le vie che si dipartono da una comune radice, capace di assorbire gli umori provenienti dall’esterno, ma anche di dar loro nuova vita, sono tante: la miscela di sacro e profano, di scrittura, oralità e improvvisazione, di autoriale e attoriale; il percorso dalle Corti principesche alla Corte del re “nazionale”, Carlo di Borbone; dalla regione della Capitale alla regione delle province; fino al “lungo Ottocento” in cui l’originalità della civiltà teatrale e musicale napoletana si coniuga con la sua integrazione nella cultura teatrale europea.
E vengo al terzo elemento di originalità di questa storia. Qui in Campania è andata sviluppandosi la ricerca di teoria e pratica psichiatriche, in grado di offrire un contributo rilevante e aprire nuove vie di anamnesi, diagnosi e terapia dei complessi territori di confine fra ordine e disordine: dare conto di questo percorso è stato pertanto doveroso, anche al fine di non disperdere tale patrimonio. Ideologia, analisi della funzione securitaria dei manicomi, battaglia fra psichiatria tradizionale e antipsichiatria hanno caratterizzato il dibattito storiografico e le ricerche dagli anni Settanta fino alla fine del secolo scorso. Nel nuovo millennio si fa strada l’esigenza di studiare nuove fonti, di analizzare la dimensione locale nel doppio profilo delle pratiche istituzionali e amministrative e dell’emancipazione dall’ideologismo. Ma, finora, le poche ricerche riguardano il territorio centro-settentrionale del nostro paese. Poco è stato fatto per la Campania. Soprattutto è da mettere a fuoco un problema: il gap della Campania tra il suo essere stata uno dei territori pilota e pioniere nel nostro paese in fatto di ricerca e cura dei disturbi e delle malattie mentali e lo stato materiale in cui versa da alcuni anni la condizione dei soggetti colpiti da disturbi della personalità soprattutto per l’incuria delle istituzioni.
Si tratta di materiali storici di riflessione. Spetta alle istituzioni tradurre il “che fare” in realizzazioni tese ad armonizzare passato e presente, memoria e futuro.
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