Quei campioni di confine che hanno fatto grande lo sport della Nazione

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Tra le decine di migliaia di istriani fiumani e dalmati che lasciarono le loro terre dopo il passaggio alla Jugoslavia davvero tanti erano gli sportivi. Tra quelli già affermati e quelli che erano ancora bambini al momento dell’esodo e sarebbero diventati famosi successivamente, c’è un vastissimo campionario in rappresentanza di un po’ tutti gli sport e a cui il giornalista Lamberto Gherpelli ha dedicato una galleria nel suo “Campioni di confine” (Ultra sport, pagg. 187, 16 euro).

È uno di loro, oggi novantunenne, il fiumano Abdon Pamich, oro nella marcia alle Olimpiadi di Tokyo del 1964 che spiega quale spirito li animava: «Da noi c’era proprio la cultura dello sport. Abbiamo avuto nuotatori, scalatori, alpinisti, pugili. C’erano ingegneri e intellettuali che facevano canottaggio».

Uno dei componenti più noti di questa “nazionale dell’Esodo” è sicuramente Nino Benvenuti, che lasciò Isola d’Istria quando aveva otto anni. Ed è forse l’unico che per molti anni è stato riconosciuto come istriano. Quando ritornò a Trieste dopo aver vinto il titolo mondiale sul ring di New York, era il 17 aprile 1967 e quella notte milioni di italiani ascoltarono alla radio la voce di Paolo Valenti trepidare per la sua vittoria su Emile Griffith, accolto dalla folla che lo portava in trionfo, dopo il sindaco Spaccini Nino venne ricevuto e festeggiato anche “tra i fratelli dell’Istria”, come titolava “Il Piccolo”.

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Ma nel resto d’Italia Benvenuti era considerato triestino a tutti gli effetti e nessuno sapeva perché avesse lasciato Isola. Come tutti ignoravano che Mario Andretti, quando nel 1978 vinse il campionato mondiale di Formula 1, che era nato a Montona, e che aveva cominciato ad armeggiare attorno ai motori proprio nella cittadina sopra la valle del Quieto, per tutti era un italo-americano come tanti.

Solamente nel 2010, a sei anni dall’istituzione del Giorno del ricordo, Il Piccolo pubblicò in prima pagina un’intervista in cui Andretti ripercorreva le sue origini, la visita alla casa di Montona ormai abitata da estranei, il vino che faceva in California che aveva chiamato Montona rosso e Montona bianco.

Sportivi di successo nati in Istria, a Fiume o a Zara erano tanti, ma le origini erano state cancellate. Il perché adesso non è più un mistero. Erano italiani scomodi, che per molti fuggivano da un paese comunista per una sola ragione, erano fascisti.

Smistati in oltre cento campi di raccolta in un’Italia che era ancora piena di macerie della guerra e aveva altro a cui pensare, non se la passavano bene.

Giovanni Udovicich, fiumano come Pamich, trovò alloggio con la famiglia in una caserma di Novara e sentiva i novaresi che dicevano ai bambini “se non mangi ti mando dai profughi”. Ha raccontato che un giorno, a quindici anni, si fece dare un passaggio sulla moto di un amico per andare a vedere il Grande Torino, vide giocare Ezio Loik, fiumano come lui, che dopo gli esordi con la maglia granata della Fiumana giocò nel Venezia prima di essere acquistato dal Torino.

Udovicich, forse l’unico pelato sulle figurine Panini degli anni Settanta, a Novara è diventato una bandiera e poi un mito; quando è scomparso, pochi anni fa, gli hanno intitolato la curva del tifo più caldo.

Nel Torino giocò più tardi Franco Sattolo, anche lui di Fiume. Dopo un passaggio al Silos di Trieste lo mandarono in Versilia, poi a Genova. Arrivò al calcio tardi, dopo aver lavorato in fabbrica, alla Fiat. A Torino trovò il triestino Giorgio Ferrini e con lui tornò per la prima volta a Fiume nel 1973. Andò a mangiare al ristorante e si sorprese quando i camerieri lasciarono la sala, avevano finito il turno e i clienti dovevano aspettare quelli del turno successivo. Cose che capitavano in una Jugoslavia in cui i ristoranti erano di proprietà statale.

L’elenco di sportivi compilato da Gherpelli è lungo e offre interessanti sorprese. Non ci sono solo nomi noti, come quelli del tennista Sirola, anche lui di Fiume, e del ragusano, ma zaratino di adozione, Osvaldo Missoni, che prima dei maglioni colorati partecipò alle Olimpiadi di Londra nell’atletica. Oppure quelli dei canottieri della Pullino o del velista Straulino. Gherpelli riporta in luce quegli sportivi di cui oggi si è perso il ricordo ma che ebbero il loro momento di gloria.

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Come il cestista Nino Calebotta, nato a Spalato nel 1930, che negli anni Cinquanta giocò nella Virtus Bologna e di cui si diceva avesse un gancio alla Jabbar. Oppure Rudi Volk, un altro fiumano, che nel 1928 era l’idolo dei tifosi romanisti che lo avevano soprannominato “sciabbolone” per il suo tiro potente. Chiusa la carriera tornò a Fiume ma con l’esodo perse tutto e solo per l’intervento dell’ex compagno di squadra Bernardini, che gli trovò un impiego come portiere del palazzo sede del Totocalcio, si salvò dalla miseria. Più sfortunato fu Rodolfo Ostroman, che dopo aver giocato col Milan e la Triestina tornò a Fiume. E’ uno dei pochi che non parte, rimane sotto il nuovo regime di Tito ma finisce anche in carcere e poi si perde nell’alcol.

La prefazione di Giancarlo Padovan

I tre triestini: Cesare Maldini, Ferruccio Valcareggi e Nereo Rocco

Il confine è una cicatrice dell’anima. Non vi si scappa mai definitivamente, non lo si dimentica mai completamente. Ogni posto di confine ha una sua sofferenza e una personalissima sopportazione del dolore. Non credo sia un caso che tutti gli sportivi raccontati in questo libro abbiano abbracciato discipline dolenti e abbiano tratto linfa vitale dalla fatica.

Non è un elogio del calvinismo, peraltro così diffuso tra gli atleti che mettono il merito in testa a tutto. Si tratta proprio di un’inclinazione dell’animo. Non so quanto sia giusta l’idea che mi sono

fatto – o forse l’ho sempre avuta –, ma credo che chi ama il proprio Paese e, per una ragione qualsiasi, ne resta fuori, metta una volontà eccedente nel riconquistarlo e nel rappresentarlo.

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Credo anche che la gente di confine, soprattutto quando viene espropriata del proprio territorio, o si ritrova minoranza in comunità straniere, possegga una sensibilità maggiore, più coltivata e dunque più raffinata. Così come credo che il concetto di patria, nella testa di queste persone, coincida con l’heimat della cultura tedesca, così ricca di proprietà ancestrali.

Nel mio ormai lungo percorso professionale, giunto quasi al termine, il confine ha sempre rappresentato una stella polare. Non perché fossi al di là di esso, ma perché vedevo attraverso le sbarre e le reti, i muri o i reticolati, la vita degli altri

Un confine va attraversato quando la notte sta già avvolgendo le cose e le case. Ne troverete sempre almeno una, con la luce accesa, da cui filtra l’intimità di una cucina, il bagliore di una televisione, la sagoma di un letto o di un armadio. Non di rado, da quei quadretti domestici, si può perfino percepire l’odore della sera o del cibo. Un confine va attraversato quando la notte sta già avvolgendo le cose e le case. Ne troverete sempre almeno una, con la luce accesa,

da cui filtra l’intimità di una cucina, il bagliore di una televisione, la sagoma di un letto o di un armadio. Non di rado, da quei quadretti domestici, si può perfino percepire l’odore della sera o del cibo. 

È stato passando confini che ho scoperto chi, da italiano, ha vissuto lontano, sognando il viaggio all’incontrario. È stato all’estero che maggiormente ho sentito il bisogno della mia terra, della mia heimat, delle nostre case.

Ho avuto la fortuna di conoscere Sergio Vatta, nato a Zara nell’ottobre del 1937 e morto a Trofarello, nel torinese, il 23 luglio 2020. Eravamo insieme sia nei campi fortunosi del calcio femminile (Sergio è stato Ct anche dell’Italdonne), sia nel luglio del 1994, a Pasadena, il giorno della finale della Coppa del mondo tra Brasile e Italia. Come tutti sanno, quella disgraziatissima partita finì ai calci di rigore e a vincerla fu il Brasile di Bebeto, Romario e Dunga.

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Sergio, stretto collaboratore del Ct Arrigo Sacchi, in quell’atto conclusivo era in campo, propriamente dietro la panchina. «Marcato stretto» mi spiegò lui più tardi «da due giganteschi poliziotti della security americana». A loro non andava giù che Vatta, come tutti gli altri componenti della panchina, passeggiasse avanti e indietro, in preda a un’angoscia che solo chi ha giocato o allenato conosce davvero. Ma il timore maggiore dei due deve essere stato quello comunicatogli da Sergio in perfetto italiano: «Se vinciamo noi, vi do due cazzotti a testa e vado a far festa con i ragazzi della mia terra».

Disse proprio così, «i ragazzi della mia terra», anche quando, molte ore dopo – e ben lungi dall’aver smaltito la delusione – me lo raccontò in albergo, nella cena forse più triste della sua carriera.

La favola di Andretti

Mario Andretti nel 2021

Mario Andretti nel 2021

Bisogna partire dai giorni dell’esodo, da Montona, luogo natio di Mario Andretti, nell’allora provincia di Pola. Oggi per arrivare in questa terra bisogna attraversare due frontiere, quella fra l’Italia e la Slovenia e quella fra la Slovenia e la Croazia: questa, infatti, è una terra di mezzo.

Parlare di frontiere, in questa meravigliosa penisola in mezzo all’Adriatico che è l’Istria, significa parlare di confini invisibili ma profondi, e aprire una delle pagine più crudeli e dolorose di storia del nostro Paese. «Dovevamo scegliere: mantenere i beni immobili in un posto che non era più italiano, oppure perdere tutto e spostarsi per rimanere tricolori. Non ci furono dubbi. Dovevamo restare italiani».

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È quanto racconta ad «Autosprint» Mario Andretti, detto “piedone”, non certo per il numero 41 delle sue scarpe ma perché spingeva davvero tanto sull’acceleratore. Tornando a quei giorni terribili, prima di emigrare negli States Andretti e la sua famiglia trovarono riparo in un campo profughi a Lucca, senza mai avere dal governo italiano una reale opportunità, risposte concrete o prospettive certe per il futuro.

«Finimmo al campo profughi di Lucca, dove c’erano molti altri giuliani e dalmati scappati da quelle terre per spirito di italianità» prosegue Mario. «Nel 1953 avevo tredici anni ed ero un ragazzino particolarmente vivace, nutrivo già la passione per i motori». Al campo profughi di Lucca c’era don Quirino, lo zio prete di Mario Andretti.

«Lo zio aveva una moto, io gliela chiedevo in prestito e se la doveva scordare per un settimana… e alla fine me la regalò. Scorrazzavo per il campo impaurendo i profughi giuliani». A Mario fu subito chiaro che ci voleva più coraggio per affrontare la vita di tutti i giorni che per aggredire la curva di una pista di F1. Zio Quirino convince la famiglia a emigrare negli States, a Nazareth in Pennsylvania, che resterà poi la loro residenza. Andretti non ha mai avuto il tempo di avere paura e di non farcela.

Paul Newman e Mario Andretti alla Marboro 500 Race

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«Ho iniziato dal nulla, ho avuto la mia chance e ce l’ho fatta. Quando andammo verso New York, mio padre Alvise possedeva 125 dollari. 50 li dovemmo dare a un nostro parente che era venuto al porto per portarci a Nazareth. Con i 75 dollari rimasti cominciammo una nuova vita e in due anni avevamo la nostra casa e l’officina. C’è tanto del sogno americano in tutto questo, ma la mia vita resta il raggiungimento del sogno di un ragazzo italiano».

Nel 1978 questo piccolo pezzo d’Italia fuggito dalle proprie case faceva festa quando Mario Andretti a Monza, proprio nel giorno del dramma di Ronnie Peterson, diventava campione del mondo di F1. Quel pezzo d’Italia che ci era stata tolta dopo la Seconda guerra mondiale si ritrovava a gioire celebrando un proprio campione. Certamente quel giorno Mario non dimenticò da dove tutto era partito, anche se non sventolava la bandiera tricolore.

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«L’essere istriano è un dono di natura, un dono che abbiamo avuto da quando siamo nati. Oggi sentirmi istriano è un onore che mi pregio di avere perché sono facente parte oltreché della storia anche del posto più bel del mondo». Un posto che nessuno può togliere dal cuore di Mario Andretti. «Negli anni Sessanta ero ormai un campione affermato negli Usa, ma nel mio cuore c’era il desiderio di lanciare la sfida all’Europa, di riportare a casa la mia storia: per questo ho corso in Formula Uno», ricorda.

Mario Andretti è un pilota che non si risparmia, uno di quelli che il pubblico adora. Dove ci sono gare importanti c’è lui: vince a Sebring, corre a Le Mans con la Ford GT40 ufficiale, vince la 500 Miglia di Daytona e nel 1968 debutta in F1 con la Lotus. Piace a Enzo Ferrari, che lo fa correre nel 1970 con la 512S, conquista la vittoria a Sebring rimontando sulla piccola Porsche di Steve McQueen e Peter Revson, poi il proprietario del Cavallino Rampante lo ingaggia per il campionato del mondo di F1 nel 1971. Andretti corre quando è libero dai suoi impegni americani e ottiene subito la vittoria nel Gran Premio di apertura in Sudafrica, facendo anche il giro più veloce.

Anche nella stagione successiva il pilota italoamericano corre per la Ferrari alcuni gran premi di Formula 1, ottenendo in aggiunta quattro vittorie in gare riservate per vetture sport.

Nel 1978, come detto, vince il campionato mondiale con la geniale Lotus a effetto suolo di Chapman. Mario resta legato a doppio filo a Enzo Ferrari e alla Rossa, tanto che riesce a ottenere la pole position a Monza alla guida della Ferrari 126 C2 nel 1982, un anno tragico per la scuderia di Maranello, segnato dalla scomparsa di Gilles Villenueve.

«Non posso non pensare al fatto che io e Alberto Ascari restiamo a oggi gli ultimi campioni del mondo di F1 di lingua italiana».

Forse è arrivato il momento di sentire un po’ più nostro quel campionato del mondo vinto da Andretti nel 1978, una vittoria molto più tricolore di quanto percepito nell’Italia di oltre quarantacinque anni fa, nella quale la parola esule creava solo imbarazzo, silenzio, fastidio. Nella favola a lieto fine della sua carriera Andretti tiene a precisare che «Sì, sono cittadino americano, ma sia chiaro e sappiatelo: la terra natia e il sangue nessuno potrà mai cambiarteli. Per tutta l’esistenza resteranno tali e quali».

Riprendendo le parole dello scrittore triestino Claudio Magris, gli esuli trascinarono dietro alla loro esperienza “la desolazione dell’abbandono, la povertà, l’incertezza del futuro e la misera sistemazione, per anni, in campi profughi”. Campo profughi: se provassimo a costruire un ideale dizionario dell’esodo, queste rappresenterebbero certamente due delle principali parole chiave per definire la diaspora istriana.

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La scheda

Dal 2004, il 10 febbraio è per tutti gli italiani il Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Lamberto Gherpelli, con equilibrio e partecipazione, legge questa pagina di storia a lungo rimossa in modo nuovo, dando voce agli atleti coinvolti in quelle terribili vicende.

Sono le vite intrecciate con il dramma di alcune delle figure più affascinanti dello sport italiano, da Nino Benvenuti, uno dei pugili italiani più importanti di sempre, allo straordinario marcia­tore Abdon Pamich, dalla grande Triestina di Nereo Rocco alla Fiumana di Ezio Loik e dei fratelli Varglien, alla gloriosa Pro Patria di Giuseppe Meazza, da Cesare Rubini, doppio campione nella pallanuoto e nella pallacanestro, al ciclista triestino Giordano Cottur, che corse il Giro d’I­talia per la sua terra martoriata dallo scontro con gli slavi.

Grazie ai loro trionfi, questi e tanti altri sportivi esuli istriani, fiumani, giuliani e dalmati sono riusciti a imprimere il proprio nome nell’immaginario della loro generazione, contribuendo così a far sì che sulla tragedia vissuta da una popolazione obbligata in modo violento ad abbandonare le proprie radici non si spegnesse la luce.

Gli esuli istriani, fiumani e giuliano-dalmati che hanno fatto grande lo sport italiano

Ultra Sport – pp. 192 – Euro 16,00



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