Il 16 febbraio 2025 su La Stampa è apparso un articolo dal titolo:
Forse potremmo definirlo editoriale, visto che chi lo firma è la stessa persona citata nel titolo, “il re del Barbaresco” Angelo Gaja, che nell’articolo difende il suo prodotto di punta: il vino.
Partiamo col dire che non amo la demonizzazione delle cose: non sono qui a dirvi che non dovete bere perché è rischioso. A me onestamente non importa nulla se bevete un bicchiere, una bottiglia o l’intera damigiana ogni giorno, noi siamo qui solo e unicamente per occuparci di corretta informazione. Quella fatta su La Stampa non lo è, e riteniamo sia grave che un quotidiano nazionale si presti ad articoli come quello che abbiamo letto, che sembra più una pubblicità occulta che un vero articolo.
Ci racconta Gaja:
Esistono infatti tre tipologie di alcol. Alcol di fermentazione, immutato da 10 mila anni, da quando il vino è nato, prodotto dai lieviti che si depositano sugli acini d’uva, agenti della fermentazione alcolica, ed è frutto di un processo che è il più naturale, il più bio in assoluto. L’alcol così prodotto è il costituente principale nonché primordiale del vino e si accompagna ad un 3% di altri componenti, il resto è acqua. Alcol di distillazione, prodotto dall’arricchimento di alcol a mezzo dell’impianto di distillazione. È frutto della volontà del produttore di realizzare una gradazione alcolica più elevata e far così rientrare la bevanda nella categoria dei superalcolici: durante la distillazione viene persa buona parte degli altri componenti del vino. Alcol di addizione, è quello intenzionalmente aggiunto per la produzione di aperitivi e similari attingendo dall’alcol puro di distillazione, privato totalmente dei componenti del vino, in percentuale idonea e in mescolanza ad acqua, materia colorante, aromatizzanti.
Possiamo fare tutte le distinzioni che vogliamo ma chimicamente parlando si tratta sempre di etanolo. La sua origine non cambia gli effetti finali sul corpo. Il fatto che si possa dire che l’alcol nel vino sia “naturale” o “bio”, come fa Gaja, contrapponendolo ai superalcolici, non lo rende meno tossico. L’OMS e lo IARC non devono – o possono – fare distinzioni tra tipi di alcol, ma devono limitarsi a valutare la pericolosità della sostanza in sé. La tossicità dell’etanolo dipende dalla quantità ingerita, non da processo produttivo.
Ancorché la molecola sia la stessa, sono la natura e la funzione dell’alcol presenti nel vino, superalcolici ed aperitivi a renderli profondamente diversi.
Anche qui siamo di fronte a disinformazione: la “funzione” dell’alcol non cambia la sua azione tossicologica. Poco conta che sia bevuto durante un sano pasto mediterraneo, o durante un party in discoteca: l’organismo metabolizza l’etanolo allo stesso modo.
Il rischio che comporta per il nostro corpo dipende dalla quantità e dalla frequenza con cui lo consumiamo: un abuso di vino è dannoso quanto un abuso di superalcolici, mentre a leggere Gaja sembra che il vino, che è più “nobile”, faccia meno male. Ma è una sciocchezza.
Con la demonizzazione in atto dell’alcol la confusione diviene per il vino fortemente penalizzante.
Quella fatta dall’OMS e dallo IARC, però, non è demonizzazione: è scienza. Non ci dicono di non bere, ma ci dicono che facendolo ci esponiamo a un rischio noto, sta a noi decidere se il gioco valga o meno la candela. È dal 2023 che l’OMS ha decretato che qualsiasi quantità d’alcol è dannosa e che non esiste una soglia sicura, e che questo vale per tutti i tipi di alcol; insistere nel cercare di nascondere le criticità del proprio prodotto è sbagliato nei confronti del consumatore finale che viene deliberatamente tenuto all’oscuro dei rischi per la sua salute.
Il problema difatti non è la confusione tra vino e superalcolici, ma il fatto che nel nostro Paese si parli del vino come “meno dannoso” senza che vi siano basi scientifiche reali a sostegno della tesi. La richiesta sottintesa di Gaja di separare il vino dagli altri alcolici è una strategia di marketing, non un ragionamento basato sui dati sanitari. La redazione de La Stampa se ne rende conto? Non crediamo.
Infine arriviamo a quella che onestamente ci viene da definire supercazzola finale:
Nessun’altra bevanda prodotta in Occidente ha lo spessore culturale del vino: che affonda le radici nell’umanità, storia, cultura, paesaggio, tradizione, religione. Già Noè, nella Genesi, cessato il diluvio e sceso dall’arca, piantò per prima la vite perché si potesse godere del vino come alimento e per festeggiare in compagnia.
La cultura e la tradizione non cambiano gli effetti sulla salute. Anche il tabacco ha uno “spessore culturale” in certe regioni, ma nessuno oggi direbbe che va trattato diversamente perché è parte della storia. Ci sono Paesi in cui è tradizione millenaria masticare foglie di piante allucinogene, ma non per questo diventa più nobile e meno pericoloso farlo. La Genesi, non fosse chiaro, non è un testo scientifico, ma un’opera prodotta da uomini in un epoca in cui l’aspettativa di vita era bassissima e le conoscenze medico-scientifiche decisamente scarse.
Concludendo
Quella che abbiamo visto su La Stampa è una difesa d’ufficio di uno specifico settore, quello vinicolo, difesa che non ha alcuna base scientifica, ma solo specifici interessi commerciali. È giusto che un quotidiano nazionale si presti a questo genere di contenuti? Il vino non è meno dannoso dei superalcolici, è giusto che il consumatore sappia i pericoli del suo consumo e possa decidere da solo cosa fare della propria salute. Non è perché l’OMS ha detto che l’alcol fa male che smetteremo di fare qualche brindisi, ma tra la consapevolezza del rischio e l’ignoranza ci passa il mare.
redazione at butac punto it
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