Legalizzare il suicidio assistito? Un dilemma che interpella la nostra coscienza. È comprensibile che, in una persona fortemente fiaccata e umiliata dalla malattia, il desiderio di morire possa arrivare ad affievolire l’istinto della sopravvivenza, che pure è il primo e il più radicato dei nostri istinti. Dall’altra parte, però, c’è la norma etica del “non uccidere” e “non ucciderti”: ossia le pietre miliari di qualsiasi civiltà umana, da Aristotele a Kant. E la percezione che, scalzati dalla legge questi argini umanistici, l’alluvione della disumanità sarebbe dietro l’angolo. Questi, dunque, i termini del dilemma: da una parte, una situazione disumana e penosa, che invoca una soluzione estrema con la collaborazione medica; dall’altra, una soluzione che rischia di renderci tutti meno umani.
La Regione Toscana ha rotto gli indugi, forzando la letargia del Parlamento nazionale e legalizzando la morte procurata. Ma i dubbi fioccano numerosi. Anzitutto il fatto che ci sarebbe già una soluzione, eticamente migliore del suicidio assistito, per umanizzare le situazioni cliniche più terribilmente compromesse. Si tratta della medicina palliativa e della terapia del dolore, che permettono di accompagnare il malato con dignità fino al termine naturale della sua vita. Custodendolo da ogni possibile eccesso ed abuso sul suo corpo, come sancito dalla deontologia medica e dalla legge 219/2017. Esiste già, quindi, una via percorribile, per le situazioni clinicamente severe: una via etica, rispettosa del “non uccidere” e del “non ucciderti” e della medicina ippocratica, secondo la quale il medico deve sempre agire per la vita del malato, e mai per la sua morte.
Proprio questa cultura dell’accompagnamento e della dignità del malato verrebbe depotenziata e scalfita dalla legittimazione – sia pure in limitati casi – del suicidio assistito. Avendo infatti a disposizione una soluzione finale più rapida e soprattutto meno costosa, fatalmente smetteremo di investire (risorse di senso e quattrini) nella cultura della vicinanza e dell’accompagnamento del malato. Le azioni che facciamo (curare piuttosto che avvelenare) lasciano sempre un segno. Aprire un varco legale alla cultura del suicidio, e dentro lì trasformare la cura medica in collaborazione mortifera, significa avvelenare i pozzi della nostra umanità, dando un formidabile contributo alla “cultura dello scarto”.
C’è poi un ulteriore elemento di preoccupazione. Una volta eroso il divieto etico del suicidio, la morte legalizzata sarebbe difficilmente controllabileÈ il celebre argomento dello “slippery slope” (o “piano inclinato”, o “cedimento della diga”): se sdogani il principio che si può aiutare uno ad uccidersi (dietro sua richiesta), poi la prassi non la tieni più. Potremo, per esempio, diremo di no alla richiesta di suicidio assistito di un depresso cronico? O di un malato di Alzheimer (con buona pace della stupenda poesia di Simone Cristicchi)? O di un paziente oncologico all’esordio della sua malattia, che preferisce morire subito piuttosto che avviarsi in un percorso che si annuncia pesante e doloroso? Si dirà: ipotesi fantasiose, perché sarà la legge a prevenire tali derive abusive. Di fatto però (e sintomaticamente) già nell’elaborazione della legge registriamo l’imbarazzo che abbiamo nell’aggettivare correttamente il tipo di malattia che sarebbe “sufficientemente seria” per ottenere il suicidio assistito: serve la malattia “grave”? O “irreversibile”? O “incurabile”? O “terminale”? Difficile che la casistica della morte a richiesta non sfugga di mano. E non è che, in fondo al “piano inclinato” (che avremo pian piano disceso), troveremo magari la legittimazione del suicidio assistito per “stanchezza di vivere”, cioè per semplice vecchiaia? Non è una fantasia. Al Parlamento olandese (il primo, nel 2002, ad avventurarsi in un percorso di legalizzazione) giace una proposta di legge che recita proprio così: eutanasia legale per chi si sente vecchio e cadente, e ogni mattina vede rinnovarsi la sua pena e umiliazione, e non vuole gravare economicamente sui suoi figli. Non stiamo facendo terrorismo psicologico, o catastrofismo a buon mercato. Stiamo solo applicando quella “euristica della paura” (Hans Jonas) che illustri pensatori laici ci dicono essere necessaria, quando si tratta di affrontare le grandi ed epocali questioni della bioetica.
Personalmente, quindi, non la farei una legge sul suicidio assistito. Non è che mi piaccia un mondo dove si soffre, ma mi spaventa di più un mondo diventato lentamente necrofilo nei suoi cittadini, e necroforo nei suoi dottori. Vorrei un mondo dove la vita è accolta e curata fino alla fine. E dove il dolore disumano viene fronteggiato con una soluzione umana (ce l’abbiamo…), non con il veleno dell’iniezione letale.Naturalmente so bene di essere in minoranza. La maggioranza dei cittadini italiani si dicono favorevoli al suicidio assistito, anche all’interno del mondo cattolico. Questo significa, in democrazia, che prima o poi una legge nazionale sul suicidio assistito verrà fatta. L’auspicio allora, a beneficio di coloro che la scriveranno, è che si abbiano almeno alcune accortezze. Anzitutto vengano ricordate le leggi che già esistono, per cui sono reati sia l’omicidio del consenziente (art. 579 Codice Penale) sia la collaborazione al suicidio (art. 580). Giova ribadirlo, onde evitare fughe in avanti su un fantomatico “diritto alla morte”, che non esiste, come ricordato dalla Corte Costituzionale (sentenza 242/2019). Si affermi poi come prioritaria la scelta dell’accompagnamento e della cura, nella cornice della legge 38/2010 sulla medicina palliativa. Quanto ai casi particolarmente drammatici – in realtà numericamente molto pochi, benché amplificati dalla propaganda mediatica – la soluzione meno peggiore sarebbe di affidarli ai comitati etici ospedalieri, con obbligo di decidere, anche in deroga ai principi appena richiamati, in tempi sufficientemente celeri. Sarà il comitato etico ospedaliero a valutare caso per caso la severità della malattia, l’intensità della sofferenza e la libertà della richiesta di suicidio assistito, facendo riferimento anzitutto alle regole della “buona pratica clinica”. Anzi, sarebbe opportuno che i comitati etici ospedalieri stilassero di comune accordo una serie di criteri di esclusione, onde evitare abusi nell’accesso al suicidio assistito (tipo quelli che abbiamo paventato poco sopra). Non sia però la legge a specificare i criteri di inclusione e di esclusione, perché questa specificazione, necessariamente generale, si esporrebbe al rischio di interpretazioni estensive e abusive. E non si dimentichi la possibilità dell’obiezione di coscienza, a tutela di quei medici che potrebbero trovarsi costretti ad eseguire protocolli mortiferi, o di collaborazione al suicidio, che urtano la loro coscienza etica e professionale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link