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Dopo aver dissipato, in un’allucinante riffa delle candidature più improbabili e diversive, cinque degli otto mesi che ci separano dall’apertura delle urne per eleggere il nuovo sindaco di Genova, nel sinedrio Pd (auto-elettosi supremo decisore degli organigrammi liguri per aver raccolto, alle passate regionali, il 13,5% dei suffragi effettivi nel capoluogo) cresceva una palpabile frustrazione da impotenza. Questo in quanto bisognava commisurare due esigenze irrinunciabili: ribadire la propria centralità arbitrale e impedire l’emergere di aspiranti estranei al pollaio di questo ceto partitico. Mentre – ancora una volta – non risultava di certo priorità imprescindibile sconfiggere la destra smascherata dal Totigate; con cui in questi anni componenti della sedicente sinistra avevano concluso ottimi affari.
L’asimmetrica quadratura del cerchio dipendente dal fatto che il vecchio city boss Claudio Burlando sponsorizza soluzioni nazionali alternative alla segreteria Schlein, che – invece – l’aspirante successore nel controllo d’area Andrea Orlando appoggia (avendola presa in ostaggio, insieme agli altri cacicchi e capibastone; di cui all’inizio la tenera Elly aveva garantito il repulisti). Mentre l’editore di Primocanale Maurizio Rossi (la televisione locale più importante del territorio, in crisi di immagine e credibilità essendo finita nel gorgo del Totigate) rivela aspetti non edificanti nel rapporto tra i due ex ministri liguri: l’accordo stipulato tra Burlando e Orlando, per cui il primo avrebbe assicurato appoggio alla candidatura a presidente di Regione Liguria dell’altro, a fronte del diritto di decidere il nome del futuro sindaco genovese. Patto non rispettato e vendita in anticipo della pelle dell’orso, che rivela di che pasta siano fatti questi presunti leader. Che rischiavano il totale discredito come grandi manovratori, nell’interminabile stallo creato dai loro giochi di potere.
Finché nel manicomio sotto la Lanterna non si è accesa una luce. La settimana scorsa è saltato fuori dal cilindro dell’establishment il nome di un outsider che poteva rasserenare gli animi travagliati dei cercatori di un candidato purchessia: Silvia Salis, di cui – or, ora – apprendiamo le vittorie in gare nazionali di lancio del martello (specialità olimpionica di ben scarso rilievo) e attuale vice di Giovanni Malagò in un altro sinedrio: il Coni. Ma di cui non conosciamo un’idea che sia una sulla città che ambirebbe governare e le martellate non sembrerebbero competenze primarie di un amministratore pubblico.
Mentre scorrono viralmente notizie di ben altro tenore. Ad esempio la sua dichiarata fede renziana, confermata da video della Leopolda in cui il Matteo d’Arabia la intervista prefigurandole futuri ministeriali (e ottenendo risposte programmatiche di sconfortante banalità).
Soprattutto una scoperta attitudine al pendolarismo bipartisan, per cui l’aspirante prima cittadina del campolargo progressista, risulta chiamata dall’ex sindaco destrorso Marco Bucci a far parte dell’esclusivo club degli “Ambasciatori di Genova”; che non si sa bene cosa ci stiano a fare, oltre a fungere da fiore all’occhiello di un parvenu – quale il Bucci – con la fissazione di circondarsi di “bella gente” tipo jet set.
Ma le perplessità su questa tizia, in possesso di credenziali altamente improbabili (a parte il tutelare l’oligopolio della politica politicante), non è niente rispetto alle reazioni dell’intero ceto di partito, che ora riprende a respirare in quanto sgravato dalla mission impossible di rappresentare e dare soluzioni ai problemi della propria società.
Che la nomenclatura Pd squittisca di gioia e si concentri sugli organigrammi futuri dell’opposizione è comprensibile. Che il primo colloquio della renziana Salis con i plenipotenziari renziani sia andato benissimo risulta francamente scontato. Semmai stupisce il via libera dei sinistri duri e puri dell’Alleanza Sinistra/Verdi, a meno non si tratti di un equivoco: che Fratojanni abbia scambiato la Silvia con l’Ilaria Salis, l’antifascista militante finita nelle carceri ungheresi. E i Cinquestelle? Il coordinatore regionale Stefano Giordano plaude a una candidatura di genere che femminilizzerebbe la politica. Ci si chiede: avrebbe detto lo stesso con Raffaella Paita o Maria Elena Boschi? Confusione mentale dei 5S oltre il delirio o velleità entrista? Magari nell’ipotesi di sostituire il Giuseppe Conte inviso all’establishment con un leader piacione, quale lo zar a vita dello sport: il presidente Malagò.
Più banalmente, con un tipo in carriera come Salis-martello, finalmente questo ceto politico di arrampicatori sociali può realizzare il sogno proibito di avere in quota una sciura, che di politica non ne sa nulla ma di standing sociale elevato; come quando aveva provato, tramite Carlo Calenda, a ingaggiare Letizia Moratti Brichetto Arnaboldi. Poi ritornata all’ovile visto che da quel lato i posti non erano garantiti. Ora ci si ritrova con un’altra Moratti, e persino più giovane.
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