BRESCIA Un mese di pausa, il tempo necessario per riorganizzarsi dopo il duro colpo subito col maxi-sequestro della Guardia di Finanza avvenuto a Scilla (lo abbiamo raccontato qui). È l’estate del 2020 e Giovanni Natalino Cambareri (cl. ’69) di Scilla, è più intenzionato che mai a portare avanti i suoi propositi: portare ulteriori contanti in Calabria e “distruggere” il sodalizio criminale guidato da Giuseppe Zeli (cl. ’76) e il vietnamita Hung Giang Vu (cl. ’79) noto come “Gianni”, tutti arrestati nell’inchiesta della Distrettuale antimafia di Brescia, su ordine del gip Alessandro d’Altilia.
È il 29 luglio quando Cambareri, in una conversazione intercettata dalla pg con Mariano Oliveri, dice di aver parlato col padre, Mario, al quale avrebbe spiegato che, anziché preoccuparsi dei soldi sequestrati a Scilla, avrebbero dovuto pianificare «come procurarsi, illecitamente, ulteriore denaro», utilizzando magari una staffetta composta da almeno cinque auto. Nel piano di Cambareri, così come è emerso dall’inchiesta, c’era l’intenzione poi di finanziare principalmente il fratello Domenico e suddividere la parte rimanente tra le famiglie Oliveri e Sgarlato, per il matrimonio delle rispettive figlie.
Propositi rimandati a settembre, quando cioè Simone Iacca (cl. ’85) – anche lui arrestato – avrebbe individuato un alloggio senza contratto di locazione nei pressi di Desenzano del Garda. Insomma, una nuova base operativa fondamentale per portare a termine il proprio piano: colpire nuovamente l’organizzazione originaria e imporre la propria leadership. Anche con le maniere forti. Cambareri, come ricostruito dall’accusa, non solo nega qualunque responsabilità rispetto alla sottrazione del bottino da 600mila euro ma, parlando con Zeli e Vu, prospettava loro anche la possibile realizzazione nei loro confronti di azioni ritorsive, mettendo nel mirino soprattutto il vietnamita, invitato letteralmente a lasciare Brescia. Come è emerso dall’inchiesta, dunque, Cambareri stava cercando di cristallizzare attorno a sé «un nuovo gruppo criminale, sottomettendo i suoi ex sodali e, al contempo, cercando di garantirsi il loro supporto futuro».
Il calabrese, sfruttando ovviamente il suo curriculum criminale e potendo contare su sul suo potere ‘ndranghetista, non esita a parlare di “guerra”, lasciando intendere di poter contare su un grande numero di “amici”. «Se vuoi la guerra, facciamoci la guerra»: questo, insomma, aveva da “offrire” Cambareri ai due, facendosi particolarmente minaccioso con Vu: «Se non è possibile parlare, Gianni, vuol dire che oggi Vietnam e Calabria sono entrate in guerra». Un messaggio diventato ancora più chiaro poco dopo: «Io posso essere con soldi e senza soldi, ma amici ne ho un esercito». Anche perché Cambareri, è considerato «reggente della cosca di ‘ndrangheta di San Roberto, nel Reggino» già condannato nel 2015 per associazione per delinquere di tipo mafioso e detenuto fino a giugno 2017 al regime del 41bis.
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È in questo scenario di intimidazione che il calabrese riesce ad imporre l’accordo al vietnamita: Vu avrebbe continuato a «fornirgli il denaro contante dietro corresponsione di una commissione del 2,5%» e la garanzia di non subire altre sottrazioni di denaro, ottenendo di fatto una “tregua”. Nel frattempo, lo convince anche che, con la rapina, non c’entrava nulla, facendo riferimento a presunte indagini giudiziarie a carico di altri soggetti che, in qualche modo, avrebbero potuto coinvolgere anche loro. E, soprattutto, gli fa una promessa: quella di risalire ai veri responsabili. In fondo uno della sua famiglia era stato picchiato – questa la versione ufficiale – e quindi c’era un «codice d’onore» da rispettare. Anche perché, come ripetuto da Cambareri, «chi conosce i calabresi sa anche cosa significhi quel gesto». Nulla di tutto ciò, però, corrispondeva a verità. (g.curcio@corrierecal.it)
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