C’è un’emergenza della siderurgia pubblica che si sta sottovalutando sotto l’aspetto socio economico, il cui epicentro è Taranto, in cui ha sede lo stabilimento di Acciaierie d’Italia, in amministrazione straordinaria, con a capo una troika di commissari. Nell’ultimo Cdm, è stato stanziato un contributo di 250 milioni di euro per tirare a campare. È una piccola somma sottratta da quel che resta dal finanziamento di un miliardo e mezzo sequestrato agli ex proprietari, la famiglia Riva, e assegnato a suo tempo alle bonifiche.
Lo scenario
Insomma, il governo Meloni non ha fatto altro che giocare ai tre bussolotti, spostando i 250 milioni dall’investimento ambientale alla produzione. Non facendo questa operazione lo stabilimento siderurgico avrebbe dovuto chiudere, con gravi ripercussioni economiche e sociali. In precedenza, il Mef ha stanziato un prestito ponte di 320 milioni di euro. A conti fatti, ogni mese perde 62 milioni di euro, quasi un miliardo l’anno. Il ministro Urso sta facendo i salti mortali per vendere AdI, ma al bando si sono presentati due gruppi siderurgici gli azeri di Baku Steel Company e gli Indiani della famiglia Jindal e il convitato di pietra: il Fondo statunitense che ha partecipato “pro forma”.
L’opzione job venture
Lo stabilimento produce quasi 4 milioni di tonnellate di acciaio con gli Altiforni 1 e 4, molto al di sotto della sua capacità produttiva. Industrialmente – come visto – si produce in profondo rosso. Il che, però, ha permesso di salvaguardare l’occupazione, nella speranza che ci sia un gruppo siderurgico ad acquistare l’acciaieria. Con questi chiari di luna, non è cosa per gli azeri e per gli indiani. Nonostante ciò, potrebbe esserci una job venture: Baku Steel Company, Jindal Steel e lo Stato italiano che salverebbe – come dire- capra e cavoli, ossia acciaio e posti di lavoro. Altrimenti, lo Stato dovrà farsi carico dell’acciaio pubblico, con quali conseguenze vattelappesca. Oltretutto, piange miseria.
Il settore siderurgico italiano sotto pressione
Le imprese siderurgiche italiane, in particolare AdI di Taranto, una delle maggiori acciaierie a ciclo integrale d’Europa, sono state caratterizzate da impianti industriali spesso obsoleti, con tecnologie datate rispetto agli standard internazionali, costi elevati dell’energia elettrica e delle materie prime importate. Sull’acquisto dei minerali ferrosi ha inciso molto la guerra Ucraina – Russia. Il settore siderurgico italiano è stato anche messo sotto pressione da crescenti preoccupazioni ambientali. Gli impianti siderurgici sono fortemente inquinanti, e le normative ambientali sempre più restrittive hanno reso difficile per molte imprese mantenere una produzione economica e sostenibile. Questo è stato particolarmente evidente nell’area di Taranto, dove AdI ha affrontato ripetute accuse per danni ambientali e per la salute dei lavoratori e dei tarantini. A partire dagli anni ‘80, il settore siderurgico ha attraversato numerosi processi di ristrutturazione e privatizzazione. L’industria acciaieria italiana ha dovuto affrontare il declino della domanda interna – leggasi auto – e la necessità di rispondere a una domanda estera che chiedeva prodotti più innovativi e a costi competitivi.
Il caso di Taranto
Il caso emblematico della crisi siderurgica pubblica, che si sta caratterizzando in una pericolosa emergenza – come detto – è quello dell’acciaieria di Taranto. Fondata negli anni ‘60 come una delle principali acciaierie d’Europa, l’ex Ilva ha attraversato gravi difficoltà economiche, finanziarie e ambientali nel corso degli anni. La privatizzazione della società negli anni ‘90 e la successiva acquisizione da parte di Riva Fire, e più tardi ArcelorMittal, hanno solo parzialmente risolto i problemi, ma non sono riusciti a evitare le crisi periodiche legate alla gestione aziendale, alla produzione e agli impatti ambientali. L’AdI è diventata simbolo delle difficoltà economiche e sociali del Sud Italia, con il contesto lavorativo e sanitario che ha sollevato numerosi dibattiti a livello nazionale. In sintesi, la crisi della siderurgia italiana è stata causata da una serie di fattori interconnessi che vanno dalla concorrenza internazionale alla difficoltà di innovazione tecnologica, senza dimenticare l’impatto delle problematiche ambientali e sociali. Il futuro del settore dipenderà dalla capacità di adattarsi a un mercato sempre più globale e dalle politiche industriali orientate alla sostenibilità. Per Taranto, un tempo capitale dell’acciaio, facile a dirsi ma difficile a farsi.
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