Un anno dopo l’omicidio di Navalny
Il 16 febbraio 2024 Alexey Navalny moriva assassinato nella colonia penale di Kharp nella regione di Jamalo-Nenets, a Nord degli Urali e a più di 2 mila km da Mosca, oltre i confini del Circolo polare artico. Vi era stato rinchiuso il 23 dicembre 2023 in regime di isolamento che stava scontando per la ventisettesima volta in tre anni. Il suo destino era segnato, dopo un lungo calvario iniziato con l’arresto nel 2021, al suo rientro a Mosca da Berlino, fatto di processi farsa, con capi di imputazione inesistenti e inventati (condannato in un primo tempo a nove anni di reclusione nella colonia penale di Melekhovo, aveva subito un successivo grado di giudizio a porte chiuse, senza difesa legale, al termine del quale gli erano stati inflitti 19 anni per “estremismo” secondo un marchingegno giudiziario studiato a tavolino dal regime sotto la guida del FSB, erede del KGB), tentativi di avvelenamento con il gas nervino, denutrito, indebolito, ridotto alla mera sopravvivenza a termine, senza alcuna speranza di uscirne vivo.
Né la moglie Julija Naval’naja né gli amici rimastigli fedeli pur se a loro volta ridotti al nascondimento e alla morte civile, avrebbero anche solo immaginato che potesse sopravvivere ad un regime di detenzione durissimo: se infatti qualcuno dei prigionieri avesse varcato l’alta rete di recinzione del penitenziario sarebbe stata sbranato dagli animali selvaggi che infestano quel territorio immenso e lontano da ogni possibile rifugio umano. Condizioni estreme di prigionia e isolamento mascherate da notizie ovattate e filtrate dalla polizia penitenziaria, di cui veniva direttamente e puntualmente reso edotto il suo vero carceriere – Vladimir Vladimirovič Putin – di cui Navalny era fiero e coraggioso oppositore politico nella sua breve ma intensa militanza da partigiano e avversario della più bieca e truce dittatura del nostro tempo. Le rare immagini che giungevano di lui lo mostravano con il volto scavato dalla sofferenza e dalla lunga persecuzione politica e giudiziaria ed erano insieme la rappresentazione iconica della spietatezza a cui piò giungere l’animo umano e dall’altro il segno di una lenta espiazione del ‘nulla’, poiché ogni imputazione era semplicemente la rappresentazione di ciò che la filiera della dittatura aveva via via sottilmente costruito in modo del tutto falso, anche se restituiva ai suoi sostenitori il coraggio e la volontà di opporsi al male, di resistere fino alla fine, per lasciare una traccia, un percorso che prima o poi qualcuno potrà riprendere.
Ad un anno di distanza da quel crudele assassinio – che ci ricorda le pagine più buie delle vicende umane di tutti coloro che nella Storia si sono opposti alle dittature e al declino delle libertà civili – la moglie è considerata la sua erede morale, anche se nessuno potrà rimpiazzare il carisma e l’ascendente che Alexey trasmetteva ai suoi seguaci. Il suo eroismo e le modalità cruente della sua fine restano un monito per tutti coloro che nel mondo stanno combattendo per le libertà individuali e sociali, sostenendo i valori della democrazia e ancora oggi – nonostante la spietatezza di un regime che non ammette interlocuzioni o confronti, opposizione politica aperta e revisionismo ideologico – esprimono tutto il loro significato simbolico ed evocativo: ci vogliono gli eroi e pure i martiri per comprendere quanto possa essere spietato, crudele ingiusto l’animo umano. Evocando la sua vicenda umana ci si chiede come possa essere credibile la narrazione del regime dell’aggressione all’Ucraina – contrabbandata come ‘operazione militare speciale’ – che giunge a contare ormai tre anni dal suo inizio datato 24 febbraio 2022.
Navalny era oppositore interno al regime di Putin e ne contestava la spietata tirannia che conculcava ogni libertà civile: di pensiero, di parola, di riunione, di confronto politico. Ma era ben consapevole che l’intento di Putin era quello di impossessarsi di un territorio e del suo popolo, cancellando l’Ucraina dalla cartina geografica, per sottometterla alla Russia. Mire che restano tali ancora oggi, tolti di mezzo altri personaggi scomodi come Evgenij Prigožin, dopo il suo tentativo di ribellione del 2023 e dopo l’attentato al teatro Crocus City Hall di Mosca, avvolto nel mistero delle ricostruzioni tra pista jihadista, accuse all’Ucraina e alibi complottisti. Nel concitato materializzarsi di ipotesi sull’apertura di trattative di pace, tre anni di martirio e devastazione dell’Ucraina sembrano la premessa di una disfatta totale: non sul campo di battaglia ma nelle affermazioni e nelle possibili intese tra Putin e Trump, dal rientro della Russia nel G7, ai risarcimenti degli aiuti militari ricevuti da Kyiv, attraverso la cessione delle “terre rare” fino ai veti sull’ingresso nella NATO e la possibilità che l’intera Ucraina diventi solo “un’espressione geografica” totalmente assorbita dalla Russia, magari attraverso la via diplomatica di elezioni farsa che – cancellando l’autodeterminazione del suo popolo – rimpiazzino Zelensky con un Presidente fantoccio imposto dai potenti della Terra. A un anno di distanza dalla morte di Navalny quel sacrificio sembra dimenticato e nuovi attori prendono la scena: a cominciare dal vice Presidente USA J.D. Vance che alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco ha spudoratamente preso a schiaffi l’Europa imputandole di essere l’anello debole dell’Occidente, aprendo la strada alle velleità e alle pretese di Mosca, prefigurando un’intesa a due (USA-RUSSIA) che bypassi il vecchio continente e la stessa Ucraina.
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