Fa bene questo giornale a occuparsi dello stato di salute del Partito democratico napoletano, come è accaduto in questi giorni a partire da un intervento di Enzo d’Errico che rispondeva alla domanda di un lettore, subito seguito da un lucido articolo di Antonio Polito. Il Pd è il primo partito della città (come giustamente ci ricorda Marco Sarracino: e fa bene, altrimenti qualcuno potrebbe non essersene accorto), è il più importante sostenitore della giunta Manfredi, e ha un passato che lo collega più o meno direttamente a vicende cruciali nella storia di Napoli. Che le sue condizioni non siano buone – anzi, che siano decisamente cattive – lo si sapeva da tempo; e sarebbe difficile non condividere il giudizio severo di d’Errico quando definisce questo partito come «un monumento all’irrilevanza culturale e politica». E però, concordato su questo, non possiamo nello stesso tempo fare a meno di chiederci: ma quale gruppo dirigente, quale forza politica, quale soggetto collettivo in questi anni ha saputo fare di meglio, è riuscito a dare un senso più incisivo e più limpido alla propria presenza nella nostra città?
Temo proprio che sarebbe impossibile immaginare una risposta più ottimistica – o meno sconfortante – della precedente. Non possiamo mai dimenticare perciò che quando parliamo dell’inconsistenza del Pd napoletano tocchiamo un problema più generale, che riguarda almeno l’insieme della politica napoletana (anche senza allargare ulteriormente il discorso, come pure si potrebbe, all’intero Paese). Del resto, basta considerare le percentuali dell’astensionismo dal voto in città alle ultime elezioni amministrative (oltre il 52 per cento: un’ampia maggioranza assoluta di cittadini), per rendersi conto di cosa pensino i napoletani dell’insieme della loro politica di prossimità (per chiamarla così). E tuttavia, una volta richiamate le dimensioni effettive della questione, non vi è dubbio che esistono specificità che riguardano in particolare il Pd napoletano, il suo modo di porsi, e la sua maniera di fare politica. Lasciamo da parte per il momento le inchieste giudiziarie. Vedremo alla fine quale ne sarà il bilancio. Ma è comunque sempre sbagliato collegare la cosiddetta «questione morale» agli accertamenti delle procure. Se essa esiste – come certo esiste a Napoli – la sua consistenza e le sue dimensioni vanno molto al di là dei campi oggetto delle indagini della polizia e dei magistrati. La «questione morale» riguarda il carattere disinteressato della militanza; il funzionamento quotidiano delle strutture territoriali; la qualità e la regolarità del dibattito interno e dei temi portati alla discussione; il peso effettivo della volontà degli iscritti nella formazione dei gruppi dirigenti; la trasparenza e la continuità del rapporto degli eletti nelle assemblee con la base degli iscritti e dei votanti; la rotazione nelle cariche; le forme e l’impegno delle campagne di reclutamento; la capacità di rivolgersi con regolarità all’intera cittadinanza e di coinvolgerla in iniziative di massa; la limpidezza della dialettica fra il partito e l’amministrazione, quando si governa la città, soprattutto in riferimento all’assegnazione delle deleghe e degli incarichi nella giunta e nelle società partecipate. In una parola: la postura complessiva del partito nella società e nelle istituzioni. La moralità che conta in politica è questa. Ed è quando si appannano questi tratti, e quando si viene meno a questi princìpi, che comincia a scadere anche la vita morale del partito, e qualcuno può scivolare verso la commissione di veri e propri illeciti. E poi, in politica, la moralità – soprattutto a sinistra – è avere idee, visioni, sguardo lungo, strategie adeguate al proprio tempo. Perché senza idee in politica non c’è passione. E senza passione, non c’è, non può esserci, moralità; ma solo calcolo, ambizione, interesse personale.
Per arrivare allo scadimento etico, in politica non occorre violare il codice penale; basta tradire il primato del bene comune. Ed è questo che dovrebbe prima di tutto stare a cuore a un partito come il Pd: e misurare su questo la propria moralità. Il resto, è affare dei magistrati. Chiediamoci allora: da quando il Pd, a Napoli, non mette in campo un’idea, che sia una, degna di questo nome? Da quando non si presenta con un’immagine definita e riconoscibile di sé stesso? Da quando non trova i pensieri e la voce per parlare ai giovani che finiscono nelle mani della camorra? Da quando non manda i suoi militanti e i suoi eletti nelle periferie – come si faceva una volta – a contendere strada per strada il territorio alla criminalità, con iniziative, presenza, dialogo? Da quando non mobilita la coscienza e il talento degli intellettuali intorno ai temi di quel nuovo meridionalismo di cui pure c’è un assoluto e urgente bisogno? Da quando, insomma, il Pd a Napoli non fa politica? Eppure, sono convinto che non sono le energie a mancare, né le vocazioni. Ma c’è bisogno di uno scatto in più, di un lampo che metta in moto un processo di rigenerazione. Napoli può essere davvero un laboratorio: ma non perché qui Pd e Cinque stelle riescono a convivere nello stesso Palazzo. Ci vuole altro. Aspettiamo altro.
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