Nosferatu, dal mito alla verità psicologica

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Canini che penetrano la pelle, liquidi caldi, sangue, carne. Niente anima. Solo animale. San Valentino è appena passato, e non avrete mica voluto trascorrerlo nell’ombra come un misero vampiro? Ma soprattutto… I vampiri sono davvero così tremendi? O sono poveri cadaverini intossicati dai loro stessi pensieri che gli scorrono nelle vene raggrinzite?

Da Bram Stoker a Robert Eggers (e il suo recente Nosferatu), passando per i miti folkloristici dell’Europa dell’Est, il vampiro ha attraversato secoli di narrazione e trasformazione, divenendo una creatura dell’orrore, un simbolo multiforme di paura, desiderio e potere. Tuttavia, al di là delle zanne, del sangue e delle ombre, il vampiro rappresenta molto di più: una finestra sull’animo umano, sulle sue ossessioni e sulle sue fragilità. Questa figura non è solo un mito, è una chiave di interpretazioni psicologiche e culturali. Non ho paura di rispondere e di svelarlo, pertanto ecco un’analisi che va ben oltre le tenebre in cui si cela questo mostro.

Le origini del vampiro fino alla sua figura nel quotidiano

La figura del vampiro è antica quanto l’umanità stessa. Il concetto di un essere che si nutre dell’energia vitale altrui è presente in culture di tutto il mondo. Nell’antica Mesopotamia, Lilitu – un demone femminile – era temuta per la sua capacità di succhiare il sangue e rapire bambini. Nella mitologia greca, i lamiai erano esseri femminili vampirici che si nutrivano di sangue umano. Tuttavia, l’iconografia del vampiro moderno è fortemente radicata nel folklore dell’Europa orientale, dove creature come il nosferatu, lo strigoi e il moroi terrorizzavano i villaggi.

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La codificazione del vampiro avviene però con l’avvento della narrativa gotica, da John Polidori col suo “The Vampyre” nel 1891, introducendo il vampiro aristocratico e decadente che influenzerà l’immaginario successivo, fino a “Dracula” di Bram Stoker (1897), con la figura del vampiro, simbolo universale che conosciamo oggi: un essere che incarna il desiderio proibito, la paura della morte e la fascinazione per l’ignoto.

Con l’avvento del cinema, il vampiro trova una nuova dimensione e diventa un animale terrificante simile a un ratto, come nel “Nosferatu” di F.W. Murnau (1922), un ribelle culturale e sessuale, come in “The Hunger” (1983), o un ribelle libero dai tabù sociali, esistenziali e morali, come in “Intervista col vampiro” (1994). Le interpretazioni più recenti, come “Let the Right One In” (2008) o la serie “What We Do in the Shadows”, giocano con il mito, decostruendolo e umanizzandolo, eppur mantenendone intatta la forza simbolica.

Ma tutte queste visioni, oggi, come si traducono? Come si muove il Nosferatu moderno nella nostra società, è un gentiluomo senza riflesso o è un riflesso senza gentiluomo?

Il vampirismo in psicologia (e in sessuologia)

Se il vampiro è sopravvissuto nei secoli, è perché parla a qualcosa di profondo nella psiche umana. La psicologia ha da tempo riconosciuto il vampirismo come una potente metafora di dinamiche psicologiche e sociali. Carl Jung vedeva il vampiro come un’ombra, una rappresentazione degli aspetti repressi della psiche che, se ignorati, possono consumarci dall’interno.

Il vampirismo è stato spesso associato alla dipendenza. Come un tossicodipendente che ha bisogno della sua dose, il vampiro è schiavo della sua fame di sangue. Questo lo rende una figura tragica, incapace di sfuggire al proprio destino. Allo stesso tempo, il vampiro è un simbolo di predazione e abuso, rappresentando dinamiche tossiche in cui un individuo si nutre dell’energia vitale altrui, sia in senso letterale che metaforico.

Ma se il vampiro altro non è che vittima di sé stesso, totalmente succube della sua malattia, chi è la vittima, il vampiro o la sua preda?

La risposta è già nella domanda

Il vampirismo è una finestra su abusi subiti e svalutazione del proprio io, che crea un legame nocivo con la ossessiva e disperata ricerca di “vita” nell’altro. Soprattutto, è anche una metafora potente della sessualità repressa. In “Dracula”, il morso del vampiro è carico di connotazioni erotiche, rappresentando il desiderio proibito e l’attrazione per il pericolo. In epoca vittoriana, il vampiro diventò un simbolo delle paure legate alla sessualità femminile e al contagio delle malattie sessualmente trasmissibili. Oggi, questa interpretazione si è evoluta, con il vampiro che rappresenta spesso l’esplorazione delle dinamiche di potere represse.

Il vampirismo, per questo motivo, ha trovato uno specifico posto anche nella psicologia clinica, come metafora per descrivere dinamiche di relazioni tossiche. Le persone con comportamenti narcisistici sono spesso descritte come “vampiri emotivi”, capaci di prosciugare l’energia delle loro vittime attraverso manipolazione e controllo. Allo stesso tempo, questi vampiri sono vittime inconsapevoli delle proprie prede, perché convinti di poter “sopravvivere” solo ed esclusivamente grazie ad essi.

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Infine, esiste una condizione clinica conosciuta come “Sindrome di Renfield”, ispirata al personaggio di Bram Stoker. Questa rara patologia psichiatrica porta chi ne soffre a sviluppare un’ossessione per il sangue, spesso collegata a traumi infantili o disfunzioni psichiatriche più ampie. Nonostante sia un fenomeno raro, questa sindrome dimostra quanto profondamente il mito del vampiro sia radicato nell’inconscio collettivo.

Che sia un simbolo di potere, di dipendenza o di decomposizione, il vampiro è uno specchio in cui l’umanità osserva i propri lati più oscuri. E come ogni buon mito, continua a sanguinare, pulsare e vivere, nutrendosi di noi, delle nostre storie. Soprattutto delle nostre paure. Se non volete trovarvi un parassita dalla pelle decadente e le esigenze più tossiche di un mammone con la scabbia, non date appuntamento a un vampiro in stile Nosferatu quest’anno. Magari mai.

di Elisa Erriu





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