Medici al lavoro all’ospedale Buzzi di Milano – Archivio Fotogramma
Uno dei punti cruciali in cui la legge toscana ha invaso le prerogative del Parlamento riguarda la fase della prestazione assistenziale al suicidio assistito. Su questo punto, occorre chiarire subito che la Corte costituzionale nella sentenza 242/2019 non ha dato alcuna indicazione, anzi ha affermato con chiarezza che non esistono obblighi per i medici e, come ovvia conseguenza, non esistono obblighi per il servizio sanitario di cui i medici rappresentano l’architrave. La Corte si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, rimanendo «affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (sono parole della Corte).
La legge toscana disattende totalmente tale indicazione e richiede – con fredda nomenclatura burocratica – che l’erogazione del trattamento di suicidio medicalmente assistito “deve” essere supportato dal medico, salvo poi a precisare che tale assistenza è su base volontaria. Si ha dunque ben chiaro cosa dice la Corte ma allo stesso tempo se ne forza il contenuto finendo con l’apprestare un vero e proprio protocollo “sanitario” del suicidio assistito. In particolare, il testo regionale assegna all’azienda sanitaria locale il compito di assicurare supporto tecnico, farmacologico e assistenza sanitaria necessari per la preparazione all’autosomministrazione del farmaco letale.
Tale dettato normativo del Consiglio regionale toscano esorbita dalle proprie competenze territoriali e interpola il dettato della Corte, la quale – anche qui occorre ricordarlo – non ha generato un nuovo diritto e cioè un diritto all’assistenza sanitaria in caso di suicidio per motivi di malattia ma, come detto, ha escluso in taluni casi la punibilità.
Si tratta di situazioni del tutto particolari, se non eccezionali, e tali devono restare onde evitare che si dia luogo a una sorta di secondo binario parallelo, rispetto a quello terapeutico e palliativo, verso gli stati di malattia grave o, comunque, alla fase della vita che si avvicina al momento della morte. Il tema è fondamentale e proprio su questo il Parlamento sta discutendo in Senato. Il ruolo del Servizio sanitario in materia di assistenza al suicidio del paziente non può dunque travalicare i confini segnati dalla Corte Costituzionale.
La normativa regionale toscana finisce invece col disegnare – indebitamente – un nuovo modello di Servizio sanitario presso il quale, parallelamente, alcuni malati sono assistiti sul piano terapeutico e palliativo mentre altri, nelle medesime condizioni, sono aiutati a porre termine alla loro vita: come se si trattasse di percorsi ordinari fra loro alternativi. Con l’effetto che le strutture ospedaliere toscane rischino di smarrire la plurimillenaria percezione sociale di luoghi di contrasto delle patologie e delle sofferenze, vale a dire di tutela della salute.
Se all’interno dei presìdi ospedalieri si aprisse a protocolli sanitari come quello tracciato dalla legge toscana, con quale spirito i pazienti potranno affrontare una degenza, magari difficile e sofferta, avendo nella stanza accanto medici che procedono ad attuare un protocollo di assistenza ad un malato che si sta suicidando? In tutti i Paesi che hanno configurato protocolli di eutanasia, i numeri dei pazienti che vi hanno avuto accesso sono progressivamente cresciuti generando la convinzione sociale che a un certo punto è meglio per tutti non vivere più.
L’enfasi sul “diritto di morire” può facilmente trasformarsi in una sorta di “dovere morale di morire”: la prospettazione di un’alternativa ordinaria, per la persona seriamente malata, tra il porre immediatamente termine alla propria vita tramite un intervento farmacologico e il continuare a beneficiare di risorse medico-assistenziali rischia di far sì che questa seconda opzione si trasformi in una sorta di (costosa) pretesa soggettiva nei confronti delle pubbliche istituzioni, comportando un’implicita “colpevolizzazione” di chi la compie e dei suoi congiunti. Il Parlamento forse troverà altre soluzioni seguendo sempre i dettami della Corte – gratuità, garanzie e un medico volontario – ma lo faccia senza coinvolgere l’amministrazione sanitaria italiana vocata a curare e a somministrare terapie benefiche per il paziente.
La forma propria dell’intervento pubblico verso le condizioni di debolezza e di precarietà che sono parte dell’esistenza umana non può che rimanere l’investimento di risorse economiche e umane a beneficio di chi si trova in difficoltà, a cominciare da cure palliative e terapie del dolore, mai tanto indietro nel loro finanziamento. Non vorremmo che in nome della libertà e dell’autodeterminazione si finisse per distogliere l’attenzione, anche politica, alla centralità dei “diritti sociali” dei pazienti più fragili e vulnerabili.
È dalla garanzia dei diritti degli “ultimi” che dipende il contrasto effettivo della sofferenza, fisica e morale, delle persone deboli e, per ampia parte, lo stesso non insorgere, nel malato, dell’intento di abbreviare attivamente il corso della sua vita.
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