Si chiamano «consumatori verdi». Una nuova casta di privilegiati, acquirenti di prodotti etichettati con il marchio della falsa sostenibilità, quella che sta avvelenando la vita quotidiana di milioni di persone che non possono permettersi gli stili di vita green. Dall’auto elettrica allo spazzolino di bambù, dalle buste in bioplastica alla carne artificiale: non esiste una categoria di prodotti che non abbia le sue versioni su misura per i consumatori verdi, apostoli del nuovo lusso pittato di verde. La vera sostenibilità è quella che riduce le distanze e le diseguaglianze; la falsa sostenibilità invece allarga i divari, crea nuove fratture proprio attraverso i consumi, alimenta il malessere rancoroso del ceto medio e lascia fermo l’ascensore sociale.
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L’insostenibile auto elettrica
Il futuro dell’auto è sicuramente nella diffusione dell’elettrico, ma al momento questa tecnologia è riservata a un ristretto gruppo di consumatori ricchi o benestanti. Al contrario, quelli che non possono permettersela, al danno sommano la beffa: il carburante aumenta sempre, la macchina che hanno rischia di finire presto fuori legge, e intanto anche con le loro tasse si finanziano gli incentivi per gli acquisti delle macchine green. L’auto elettrica diventerà sostenibile quando sarà un prodotto da largo consumo, per tutti. Al momento questo è avvenuto in un solo paese: la Cina, dove i modelli di base costano attorno agli 8 mila euro (in Italia con questa cifra forse compri una motocicletta), e dove non è un caso se già nel 2025 si venderanno più auto elettriche che a benzina e diesel, sommate. In Italia l’auto elettrica, al contrario, è diventata il veicolo preferito dei consumatori verdi, mentre i giovani under 35, secondo uno studio realizzato da Areté, pur desiderando la macchina (anche solo in affitto e non di proprietà), la vogliono a benzina, a diesel, al massimo ibrida. Comunque non elettrica. L’altro paradosso della falsa sostenibilità nel settore dell’automotive è che, grazie allo sbarco sul mercato dei modelli elettrici e ibridi, il prezzo medio di un’automobile, dagli anni del Covid 19, è schizzato da 21 mila a 30 mila euro.
Lo spazzolino di bambù che diventa nero
Diventato un oggetto iconico nel catalogo degli acquisti dei consumatori verdi, lo spazzolino di bambù è riuscito a sommare una serie di svantaggi da renderlo, al momento, insostenibile. Costa almeno il doppio di quello di plastica (e può arrivare anche a 12 euro), ma è meno efficace e resistente. Per effetto dell’umidità, in pochi giorni, il suo manico si annerisce, dando una sensazione di sporcizia, ed emette un odore sgradevole. Le setole sono comunque in nylon, ovvero plastica: quindi lo spazzolino di bambù, contrariamente a quanto si pensa, non è biodegradabile. Ma allora dove stanno i vantaggi ambientali di questo prodotto così reclamizzato dal marketing del green?
Il vero costo della plastica
Al supermercato ci costringono a ritirare le buste in plastica biodegradabile, spacciando questa scelta come una soluzione nel segno della sostenibilità. Falso per tre motivi. Diverse e recenti ricerche (le ultime della Jiangnan University in Cina e dell’università di Madrid in Spagna) dimostrano che le bioplastiche possono inquinare più di quelle convenzionali. Mentre il polietilene non mostra di avere effetti sulla flora batterica del suolo, l’acido poliattico la riduce, facendo aumentare i batteri che si nutrono di azoto e diminuendo quelli che lo fissano nel terreno. In questo modo, le piante ricevono meno azoto e crescono peggio. È come se la bioplastica agisse in modo da defertilizzare il terreno, un effetto non certo innocuo, così come i sacchetti biodegradabili a base di amido di mais riducono in modo significativo il livello di ossigeno nei substrati marini e li riscaldano. Secondo aspetto: i sacchetti per la spesa non vengono regalati, ma costano da 10 a 20 centesimi di euro per ogni passaggio alla cassa. Infine, non abbiamo imparato a gettarli nel posto giusto (l’indifferenziata) e, inserendoli nel secchio della plastica, impediamo anche il riciclo di questo materiale così dannoso per l’ambiente. La soluzione è una sola: ridurre la plastica (l’anno scorso in Europa abbiamo toccato un nuovo record con 36,1 chilogrammi pro-capite di rifiuti di plastica) e sostituirla, laddove è possibile, con altri materiali. Comprese le borse di stoffa portate da casa per fare la spesa, che tra l’altro non costano nulla.
Il ritorno della bistecca
Dal carrello della spesa alla tavola. I cantori della falsa sostenibilità ci vogliono far credere che lo scandalo della fame nel mondo si sconfigge con la carne artificiale, che consentirà di dare cibo di qualità a una popolazione destinata ad aumentare, principalmente nei paesi a basso reddito, fino alla soglia, entro il 2050, dei 10 miliardi di abitanti. La balla è confezionata su misura per i creduloni del cibo, e la carne artificiale è ancora quella presentata a Londra la mattina del 5 agosto del 2013 dal biologo olandese Mark Post, che l’aveva realizzata in un laboratorio dell’Università di Maastricht, nei Paesi Bassi. Più che di una bistecca di manzo, ha le sembianze di una piccola frittella di carne, un hamburger sciapito, molliccio, di colore pallido, privo di gusto. Uno schifo. Per non parlare del costo esorbitante di una produzione piuttosto complessa: le cellule di cui si compone vengono prelevate da un muscolo vivente, poi coltivate, cresciute e riprodotte in laboratorio come accade nel corpo dell’animale o dell’essere umano. Per avere un’idea, il progetto presentato da Post è costato tra i 250.000 e i 290.000 euro, una bella somma, se consideriamo che la bistecca artificiale non pesava più di 142 grammi, poco più di un chip se invece guardiamo al meccanismo speculativo che ha messo in moto.
La carne artificiale coltivata su scala industriale in appositi bioreattori è diventata sostenibile per definizione, in pochi anni sono nate 490 società che la producono (dagli Stati uniti all’Argentina, da Israele alla Francia) e il modello per incassare profitti seducendo la casta dei consumatori verdi è stato quello della quotazione di Beyond Meat avvenuta nel 2019. Tutto studiato a tavolino, a partire dagli annunci delle potenti società di consulenza, in questo innanzitutto la A.T. Kearney, pronte a giurare che la carne artificiale «cambierà in modo radicale le abitudini di consumatori, creando un mercato di 1.000 miliardi di dollari all’anno, mentre entro il 2040 buona parte della carne consumata nel pianeta arriverà da cellule staminali». L’affabulazione, spinta da massicci investimenti in pubblicità e marketing, e dai pareri allineati di presunti esperti di alimentazione ben pagati con profumate parcelle, funziona come un orologio svizzero. Le azioni Beyond Meat sbarcano sul mercato americano a un prezzo di 25 dollari, l’una, e in poche settimane superano i 250 dollaro. A quel punto scattano le vendite, e chi incassa le stellari plusvalenze create dal miraggio della carne sostenibile? Un club di soliti noti, formato da grandi banche d’affari (Morgan Stanley e Goldman Sachs), fondi di investimento (BlackRock), magnati dell’high-tech (Bill Gates e Sergey Brin), personaggi dello star system di Hollywood (Leonardo Di Caprio e Katy Perry). A pagare il conto, invece, è il solito parco buoi dei piccoli risparmiatori, che si scottano le dita appena la bolla della carne artificiale si ridimensiona: oggi un’azione di Beyond Meat non arriva a valere 4 dollari, la società accumula perdite gigantesche e alcuni analisti la considerano a rischio sopravvivenza. E la carne sostenibile che dovrebbe sfamare il mondo? È stata ribattezzata fake meat, il nome che merita, mentre il consumo di carne tradizionale dell’americano medio ha superato la soglia dei 100 chilogrammi all’anno.
L’edilizia verde su misura per le speculazioni
Un tempo si chiamavano speculazioni edilizie, adesso queste operazioni immobiliari con lo scudo del green hanno preso il nome edulcorato di “progetti di riqualificazione”. Grattacieli verdi, appartamenti con gli alberelli all’ingresso, domotica dilagante per migliorare l’efficienza energetica. Risultato: una bolla immobiliare, con case vendute a prezzi da capogiro solo perché classificate come “sostenibili”. La capitale italiana di questa nuova tendenza è sicuramente Milano, dove tra gli effetti nefasti di una speculazione edilizia all’insegna del green c’è il fatto che uno studente, o un giovane al primo impiego, per affittare una stanza in centro nel capoluogo lombardo, devono spendere almeno 1.000 euro al mese. Amministratori pubblici con in testa l’idea di rendere sostenibile la propria città (obiettivo 11 dell’Agenda Onu per lo Sviluppo sostenibile), più che firmare licenze per “riqualificare” interi quartieri, dovrebbero concentrarsi sulle politiche necessarie per contenere il “caro-alloggi”. Non è impossibile, e alcune metropoli ci sono riuscite, come nel caso di Vienna, partendo da una gestione efficace ed efficiente del patrimonio immobiliare comunale che, messo sul mercato degli affitti, senza tollerare occupazioni abusive, ha un duplice effetto. Consente di trovare casa anche ai ceti meno forti economicamente e contiene i prezzi delle locazioni e, di conseguenza, delle compravendite.
La finta lotta alla crisi climatica
Mentre i consumatori verdi hanno dilatato i loro acquisti green, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è andata in direzione opposta. La vera sostenibilità arretra ovunque, e nessuno dei 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo sostenibile sarà raggiunto, specie sul versante della crisi climatica che i consumatori verdi, con i loro nuovi stili di vita, dicono di ridurre e contenere. Il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre, a Roma e Milano le temperature sono aumentate, in media, di 5 gradi negli ultimi trent’anni. Le emissioni nocive non sono mai state così alte e intanto da un decennio, sotto l’egida dell’Onu si celebrano le famigerate COP, le Conferenze sul clima dove si dovrebbero prendere decisioni efficaci e condivise da tutti i paesi delle Nazioni Unite. In realtà le COP sono state sequestrate dai lobbisti del gas e del petrolio che vi partecipano più numerosi dei rappresentanti degli stati, e si tengono, una coincidenza non certo fortuita, proprio nei paesi i cui governi (come nel caso dell’emirato di Dubai e dell’Azerbaijan) sono più interessati a non ridimensionare l’industria dei combustibili fossili, la maggiore responsabile delle emissioni nocive che poi impattano sulla crisi climatica. Una soluzione ci sarebbe: non mascherare l’impotenza e liberarsi dei lobbisti, sospendendo le COP fino a data da destinarsi. Fino a quando non si potranno celebrare con la certezza di arrivare a un accordo davvero utile per affrontare la crisi climatica.
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