La morte dell’eroe. Zorro secondo Latella e Bellini

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Forse il momento più epifanico dello spettacolo «Zorro» di Antonio Latella non è stato durante le tre ore di rappresentazione, all’interno del Teatro Grassi dove è andato in scena, ma poco dopo, fuori, nel freddo della mezzanotte milanese di San Valentino, giorno in cui la città meneghina ha affrontato il “graupel”, sorta di grandine soffice, che ha gelato la città. A Sarpi, nel cuore di Chinatown, un gruppo di senza tetto si rifugia dentro l’abitacolo di plastica che protegge il dehors di un ristorante (in accordo con i ristoratori? abusivamente?) per proteggersi dall’umidità e dal freddo. Uno ha una mano fuori dalla plastica, fuma, ride mentre parla con un compagno. Tutto a torno scintillano le luci delle vetrine, che restano accese a illuminare merci, e non siamo nemmeno in una delle zone più ricche della città.

Stando a quanto racconta Latella l’idea per lo spettacolo – dove vediamo quattro bravissimi attori vestiti con costumi e mantellini sgargianti fare una “quadriglia”, ovvero scambiarsi scena dopo scena i ruoli di “povero”, di “poliziotto”, di “cavallo”, di “muto” – è nata quando fuori dal Teatro Arena del Sole di Bologna ha visto due clochard travestiti con la celebre maschera dell’eroe della California Spagnola. Mentre battute e paillettes dei costumi ci fanno sprofondare una dimensione di intelligente farsa, il cortocircuito dei dialoghi tra i vari “poveri” e i vari “poliziotti” rende sempre più evidente la distanza siderale tra ciò che avviene in scena, al caldo di un teatro, e la condizione di povertà estrema che c’è fuori. L’impossibilità – il ridicolo – dell’idea di “rappresentazione” in frangenti come questi diventa persino un siparietto molto teatrale (il mio povero trema perché ha freddo, è un povero stanislavskiano; il tuo poliziotto è invece più brechtiano).

La distanza tra ciò che si vuole evocare e la materia di cui si dispone è siderale, ma basta fare un passo fuori del teatro in una metropoli qualunque che il teatro pubblico lo sostiene, lo finanzia, lo preserva – magari con quelle tasse che la rendono bella, esclusiva e anche escludente perché troppo costosa – e quella stessa realtà lontanissima ti finisce immediatamente e letteralmente “tra i piedi”.

L’epifania di «Zorro», dunque, è fuori da «Zorro». Quella del teatro che cerca di parlare di disuguaglianza, fuori dal teatro. Ma se c’è un momento in cui, per contrasto, tutto questo prende forma anche “dentro” lo spazio teatrale è il breve sondaggio a cui i quattro performer sottopongono il pubblico: chi si considera povero, qui dentro, dopo aver evocato la povertà estrema? nessuno alza la mano. E dopo aver evocato le migrazioni e le società che, pur nel conflitto, diventano sempre più plurali, culturalmente e etnicamente, occorre constatare che (esistono milanesi neri, no? milanesi asiatici) che la platea è interamente “bianca”. Che sia proprio il teatro, che si racconta come il “dentro”, ad essere fuori dai processi contemporanei?

Lo spettacolo, per quanto dal piglio allegro e ricco di momenti comici (come quando un attore/povero, al posto dei documenti mostra i genitali, rivendicando come identità il proprio corpo, il proprio essere-nel-mondo, ma provocando al contempo un bel po’ di risate e imbarazzi) sembra tuttavia la dichiarazione di una sconfitta. Intendiamoci, non dello spettacolo in sé: Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni e Isacco Venturini sono bravissimi e eccentrici (quest’ultimo anche grande performer musicale); e il testo di Federico Bellini e dello stesso Latella sfaccettato, intelligente, soprattutto quando riconduce le disuguaglianze alla loro radice primaria – la disparità economica perpetuata con la violenza – andando a scomodare persino l’etimologia atavica del “debito” che costituisce la zavorra (per chi è povero) con cui nasciamo, il sostitutivo della schiavitù, in una serie di riflessione acute che sembrano uscite dai libri di David Graeber – l’antropologo di formazione anarchica che giustamente si chiedeva com’è possibile che “ci siamo ritrovati prigionieri di catene concettuali così strette da non riuscire più nemmeno a immaginare la possibilità di reinventarci?”.

Zorro suona come una dichiarazione di sconfitta perché anche gli eroi, in cui abbiamo riposto le nostre speranze, non sono altro che l’incarnazione di un “savior complex” della società arricchita a discapito di altri: l’eroe che dà il titolo allo spettacolo (che in scena non si può nominare, pena venire scossi dal suo “segno di zorro”) non è altri che il figlio di don De la Vega, il più ricco possidente della California spagnola sotto l’impero borbonico. Così come Bruce Wayne è un miliardario, figlio di miliardari, e Kal-El in arte Clark Kenti in arte Superman, oltre ad essere un alieno, è figlio di un alto dignitario scientifico del pianeta Kripton. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Brecht nel suo “Vita di Galileo”.

E lo ripete in modo perfino più radicale anche l’attivista boliviana Maria Galindo, nel suo effervescente “Femminismo bastardo” uscito in italiano per Mimesis: «All’interno dell’immaginario della lotta proletaria è cresciuta una specie di “Salvatore”, protagonista ed eroe della storia. Un salvatore maschile per eccellenza, caudillista, militarista, eroico e che si fonda sulla figura del guerriero. Questo salvatore ha perso la credibilità, è un salvatore che sta da solo, che è stato abbandonato e che non trova il proprio posto perché ha perso quello che aveva. Quindi, questo è un altro tratto dei nostri tempi, la morte politica dei Che Guevara, la morte del loro senso politico. La morte del guerrigliero non in battaglia ma nel discredito. La nullità e l’inutilità del suo campo di battaglia e del suo eroismo». Ineccepibile dal punto di vista simbolico, segna però la fine dell’utopia in cui hanno navigato, “giustamente” per il loro tempo, i Guevara, i Cienfuegos, ma anche i Louverture, i Neto, gli Ho Chi Minh, i Machel, che pure ricchi non erano e che, in un primo momento, una frattura l’hanno pure prodotta; ma le utopie, si sa, vanno valutate alla luce del tempo che, in questo come in altri casi, si è lasciato alle spalle ulteriori disuguaglianze e sistemi spesso corrotti, ancor più spesso illiberali: la nemesi del rivoluzionario è sempre il potere (e il motto del sociologo irlandese John Holloway, “cambiare il mondo senza prendere il potere”, era ancora ben lungi dall’arrivare).

Ma se in questa visione la fine dell’eroe lascia spazio – o dovrebbe lasciarlo – all’emergere delle moltitudini popolari, in “Zorro”, dicevo, essa appare invece come una dichiarazione di sconfitta che non ha ancora messo a fuoco una possibile rinascita. Perché è vero che, nel finale, un’arlecchino nero, un Zanni, il cui nome inizia per “z” come Zorro, si lancia in un elenco di possibilità sì plurale – di un plurale irrequieto che finisce per “z”, lettera mutante e anche equivoca, dopo l’uso aggressivo, quasi neo-runico pur essendo cirillico, che ne ha fatto l’esercito russo in Ucraina – ma così facendo chiude un monologo che appare evocativo, è vero, ma anche senza via d’uscita: “Eroi al vostro servizio. Noi siamo Z. Siamo commediaz. Siamo tragediaz. Siamo inutiliz. Siamo miserabiliz. Siamo dannosiz. Siamo senzatettoz…”.

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Visto a Milano, al Piccolo Teatro Grassi

 







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