«Ho dedicato 7 anni ma è stato quasi inutile. Complotto? Fandonie»

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Dieci anni dopo, lo scandalo Veneto Banca giace in archivio, nel seminterrato del Palazzo di Giustizia di Treviso. Sono 70 solo i faldoni sulla truffa, a cui un giorno si aggiungeranno le 11.000 pagine sulla bancarotta, com’è stato per quelle sul falso in prospetto, sull’ostacolo alla vigilanza e sull’aggiotaggio, a cominciare dalle 86.500 arrivate da Roma. Al terzo piano, il pubblico ministero Massimo De Bortoli siede nel suo ufficio invaso dai fascicoli sugli altri casi, impegnato a chiuderli prima di trasferirsi a Belluno come procuratore. «Torno sulle mie amate montagne, diciamo che ultimamente non ho avuto molto tempo per andarci…», autoironizza il pm, con un sorriso amaro.


Quale ricordo ha del 17 febbraio 2015, giorno del blitz?

«Quello di un qualsiasi lettore, che apprese la notizia dai resoconti giornalistici. Era un’inchiesta della Procura di Roma».

Il rimpallo con Treviso suscitò polemiche. Può dirci cosa accadde davvero?

«Le indagini sono partite a Roma perché Banca d’Italia aveva detto che era stata ostacolata nella vigilanza. Gli esiti della sua attività ispettiva sono stati trasmessi nel 2013 alla Procura di Treviso, che però ha tenuto un po’ in standby l’informativa. In un incontro nel 2014 i magistrati delle due sedi hanno concordato che avrebbe proceduto Roma, che infatti nel 2016 ordinò l’arresto di Vincenzo Consoli. Poi però nel 2018 il giudice dell’udienza preliminare ha stabilito che era competente Treviso e così l’inchiesta mi è capitata tra capo e collo».

Del resto si occupava già di reati finanziari, no?

«Sì. Ma il fatto è che l’allora procuratore Michele Dalla Costa si era astenuto, per la vicenda della moglie (l’avvocato Ippolita Ghedini, già consulente di Veneto Banca, ndr.). Pertanto la Procura generale ha investito me, in quanto più anziano, delle funzioni di capo. Avrei potuto riassegnare il fascicolo a qualche collega, ma siccome sono Tafazzi, viste le gravi carenze di organico ho ritenuto opportuno seguirlo direttamente io. Così ho cominciato a leggere le carte».

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Impressione iniziale?

«C’erano delle accuse che a mio avviso non avrebbero retto in giudizio e quindi, dopo la consulenza di Gaetano Parisi, ho depurato il capo d’imputazione. Nello stesso tempo però ho valorizzato la consulenza di Luca Terrinoni, che a mio parere la Procura di Roma non aveva considerato abbastanza. In sostanza a Banca d’Italia e Consob erano state fornite false informazioni sulla situazione creditizia di Veneto Banca. La parte più consistente della svalutazione del patrimonio era determinata dalle perdite su crediti, fatti passare come buoni anche se erano incagliati. Parliamo di 1.131 milioni. Ho avuto la percezione di avere davanti un gigante dai piedi d’argilla, come ha poi accertato la sentenza di cui ora aspettiamo la conferma in Cassazione».

Come arrivò alla truffa?

«C’erano centinaia di querele, restituite da Roma a Treviso, in cui imprenditori e risparmiatori si lamentavano di aver acquistato azioni il cui valore era crollato. Sulla base della consulenza di Angelo Miglietta, ho capito che si trattava di una frode bancaria colossale. In sostanza i titoli erano stati venduti con una sovrastima del 70-80%, grazie al fatto di occultare l’effettiva situazione della società alla vigilanza e pure agli acquirenti. Persone che si sono fidate di un istituto bancario radicato sul territorio, il quale ha ingannato pure i direttori di filiale, convinti a fare investimenti con le loro famiglie. Purtroppo però sappiamo che fine ha fatto l’indagine».

Prescrizione, ancora prima di iniziare il dibattimento.

«Il nostro sistema processuale non è adatto a gestire casi di una certa complessità per numero di indagati, di persone offese, di episodi, visto che la prova deve formarsi in aula. I tempi di celebrazione delle udienze sono dilatati, mentre i termini di prescrizione sono rimasti quelli del vecchio processo inquisitorio».

Lo dice con rimpianto?

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«Con senso di impotenza, di inutilità del lavoro. La Procura impiega le poche risorse che ci sono, per cercare di fare bene le indagini. Ma poi tutto viene vanificato perché il Tribunale non è nelle condizioni di celebrare un processo in tempi rapidi».

Quanto ha inciso la penuria di magistrati e amministrativi?

«Ho dedicato 7 anni della mia vita, ogni giorno dalla mattina alla sera, a un’inchiesta portata avanti in tutto da 5 persone: io e 4 finanzieri, a cui in questi giorni ho fatto l’encomio. Per 16 mesi, in attesa che si insediasse l’attuale procuratore Marco Martani, sono stato anche il reggente, il che ha significato anche ad esempio prenotare i tamponi Covid per il personale e disporre l’acquisto della carta. Nella gestione delle udienze è poi intervenuta la collega Gabriella Cama, a cui passerò le consegne sulla bancarotta, di cui conosce tutto. Purtroppo però la Procura di Treviso continua a patire una carenza di organico grave e incomprensibile, anche in confronto alle altre: senza considerare i procuratori, qui siamo 13 sostituti per 887.000 abitanti, mentre Vicenza ne ha 16 per 863.000, Padova 17 per 832.000, Venezia 25 per 758.000».

L’ha evidenziato al ministro trevigiano Carlo Nordio?

«Certamente. Così come l’ho detto alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario, nell’audizione sul caso Veneto Banca. Tutto inutile».

Dopo 10 anni, resta una domanda: Veneto Banca, come Popolare di Vicenza, è stata annientata per una strategia politico-finanziaria, mentre altri istituti sono stati salvati?

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«Rispondo da pm di Treviso: queste sono fandonie. A parte che anche altre banche, ad esempio Etruria, hanno avuto inchieste. Comunque il commissario liquidatore Giuseppe Vidau, sentito come teste, ha affermato che è praticamente impossibile far fallire una banca. Ebbene il “dominus” Consoli e le figure a lui assoggettate sono riusciti a far fallire Veneto Banca. Non lo dico io, ma le sentenze: dietro il crac non ci sono complotti, bensì una gestione sconsiderata».

 





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