Nelle terre di Campana, o degli uomini-falena nella poesia italiana

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Il giorno del mio compleanno ho sognato una falena. 

Enorme, appesa al soffitto di una camera da letto su cui dormiva – se non ricordo male – mio figlio. La falena era grande come un uomo. Sul dorso della falena spiccava una figura: qualcosa di simile al teschio che, ai nostri occhi, conferisce all’Acherontia atropos quel sentore di morte. Guido Gozzano, poeta entomologo – nella fugacità delle vanesse riconosceva il brillio della poesia, il vano andare dell’uomo – la diceva “simbolo della Notte e della Morte,/ messaggera del Buio e del Mistero”. 

Il giorno del mio compleanno ho sognato che afferravo una scopa per uccidere quella falena, grande come un uomo. Ma la scopa non è una vanga e nel corpo della falena, chissà perché, ero certo brulicassero viscere umane – polmoni, intestino, un cuore. 

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Qualche ora più tardi ho rivisto la stessa falena su un albero. Era di legno, estro di un artista. La falena aveva figura di donna, a metà tra la sirena e la fata. Alle sue spalle, la chiesa di Santa Reparata, edificio scabro, lì dal XIII secolo, in parte ricostruito. Di fianco, un rifugio del Cai. Tutto chiuso. Teloni di plastica rendono crisalide le panche, i tavoli. Il rumore dei rami, in alto, imita, con cembali, quello dell’acqua, in basso. Scendo verso il fiume – sono esattamente al confine tra Toscana e Romagna. Bituminoso fiume, grigio, di pietre anguiformi. Il sentiero si sdebita in in fango: anche qui tutto, per l’immaginazione, è una miccia – sorgiva di centauri, oggi – apparirà l’uomo falena?

The Man-Moth è il titolo di una delle più felici poesie di Elizabeth Bishop, inizia così:

“Quassù
a turare le crepe è un chiardiluna pesto.
L’intera ombra dell’Uomo non è più grande del cappello.
Sta ai suoi piedi come il cerchio alla base di una bambola,
facendo di lui uno spillo invertito, la punta calamitata dalla luna.
Non la vede, la luna; ne osserva solo le vaste proprietà,
avvertendo la strana luce sulle mani, né calda né fredda,
di una temperatura impossibile da registrare col termometro”.

Nel sogno, l’immenso insetto stava immobile, a succhiare lo stame del tetto, forse; tutti gli altri, attorno – non l’ho detto: c’erano donne, ragazzi, che ammiravano con orrore quella falena umana – assetati della mia paura. Qualcuno deve fare qualcosa – la paura arma l’assassino. La falena mi guardava dalla schiena. 

In ogni caso: non ero lì per Gozzano né per Elizabeth Bishop. Sul fiume, al confine tra Romagna e Toscana, ho letto Dino Campana. Apro i Canti Orfici alla rinfusa, Ritorno. Salgo (nello spazio, fuori del tempo):

“L’acqua, il vento
La sanità delle prime cose – 
Il lavoro umano sull’elemento
Liquido – la natura che conduce
Strati di rocce su strati – il vento
Che scherza nella valle – ed ombra del vento
La nuvola – il lontano ammonimento
Del fiume nella valle – 
E la rovina del contrafforte – la frana
La vittoria dell’elemento – il vento 
Che scherza nella valle. 
Su la lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell’elemento”. 

Leggo come si sbriciola il pane – non ci sono uccelli, l’ora li ha fatti sparire, al tuorlo del migrare. Solo il fiume. Il grigio. Boschi a tracolla. Lo spirito di Campana che dilata il rio a oceano, quel didentro di aiuole in Montevideo. 

Vengo da Marradi. Per la festa, volevo nutrirmi di sangue orfico. Ma bisogna riconoscere chi a questo mondo è falena e chi è falco. 

Nel bar della piazza: le carte all’angolo, volti angolari, di gente atta alla neve, pronta al fucile. “Son capitato in mezzo a bona gente”, scrive Dino Presso Marradi. Tutto in lui ha qualcosa di ferino e di santo: “Lontano è caduta la neve… La padrona zitta mi rifà il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarcale”. 

Una targa ricorda la “Tipografia F. Ravagli” che nel 1914 stampa i Canti Orfici, grazie all’aiuto di quarantaquattro marradesi. Mio figlio trova un viottolo che scende verso il Lamone; il fiume lambisce e attraversa Marradi. Lo fiancheggiamo, sul greto: guardiamo il paese dal basso, come gatti, come anfibi. Le finestre sembrano stracci – gente fa la coda dal fruttivendolo e dal pasticciere – è sabato. Mai visitare i luoghi dei poeti: l’ebbrezza si riduce a serpe in scatola, a burocratica gestione della leggenda. 

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Tento di andare verso l’Eremo di Gamogna – un’inquietudine da uomo falena mi rode; occhi contratti sull’avambraccio, occhi a penzolare dai capezzoli. 

Dunque: ciclici castagni in cilicio, marrone in bocca, nell’iride; cavalli a sprazzi; un maneggio. L’eremo è stato fondato da Pier Damiani più di un millennio fa – ma la falena affabula le foglie, non ha notorietà con il sole. Il sentiero indica un’ora di marcia – marciti rami ne segnano i capillari, un’intensità azzurra oltre quel maniero di colli. Desisto. 

Giovanni Boine è tra i primissimi a carpire il genio di Campana; ne scrive nel 1915 su “La Riviera Ligure”, con i suoi toni, tra la carezza e l’affronto:

“È qui infatti una poesia allucinata non sai di che fatta, che se ti ci chiudi entri in un’atmosfera d’ansia, sei a balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove, chissà dove per disperazioni d’irrealtà. Non so che febbre si divori le immagini e le accavalli; che cosa si dica, precisamente non vedi; i fantasmi lampeggiano e fuggono, il luogo ove sei si tramuta: sei nella Pampa, sei tra le Stelle, un diretto in corsa ti porta, la turbolenza dei venti ti strappa. Ma insomma una strapotenza bizzarra di lirica, via ti solleva fuori di te in dimenticanza del mondo per morbosità fosforescenti”. 

Boine issa Campana a poeta-amuleto, a poeta crocefisso. Nell’epoca – di allora, d’oggi – in cui la poesia è moda, mostrina, mostriciattolo da sofà, aspirazione a mettersi in mostra, ecco, finalmente il poeta-mostro, il poeta che dà in zanne, che scotenna i culti ripotandoli dal maggiordomo, da quel frignare da maggiorenti del singulto, alla grandiosa immemore specie:

“C’è in giro per l’arte contemporanea (compresa l’italiana, parlo dell’italiana) un fermento d’esaltazione come un’ansia di novità e d’anarchia, un tumore di angoscia che cerca sfocio. Ma c’è anche, ed assai più la preoccupazione di metterlo in mostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla retorica dell’espressione. La ansiosa modernità di parecchia gente comincia dal di fuori e resta soprattutto al di fuori come la dignità ed il valore dei molti restan nel vestito e nei titoli. C’è infine gente che finge la libertà essendone dall’intimo schiava sprovvista; e poiché s’è persuasa dell’ovvia verità più sopra enunciata che la poesia è dei pazzi più pazzi, si finge dunque per pazza e lo fa con scioltezza.

Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, questo che di elementare ed ingenuo che la coltura ha lasciato in lui e nel suo stile (non l’ha cancellato), è, se dio vuole un pazzo sul serio. Epperciò Te deum”.

Adorai Boine, lui e gli uomini-falena della poesia italiana, poeti esatti al crollo, d’ecchimosi verbali, poeti del livido e del livore e nient’altra ambizione che l’abbandono. Poeti che didascalia non doma, a cui il sistema culturale non rende il culto, il cui dovere è smaniare. 

“I ripugnevoli tempi che lo sgretolo-frana degli abbandoni, m’ha giù inerte varato per l’immobile belletta del nero disgusto…”

E poi:

“Quasi in dolcezza, dentro si levano i radi gemiti come il notturno canto del chiù”.

E poi:

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“Sebbene accada ch’io via non mi curi del disfatto mistero e mago ostinato, vi finga un noncalente reale”. 

Gli uomini-falena della poesia italiana: atterriscono un po’ tutti, con quel linguaggio al primevo polline, spavaldo nell’avventarsi – ma il loro essere mitologie d’ombra, immagini a mannaia, li rende agli argini, all’erbario di applausi a scena aperta, mangiafuoco del parlar materno. Non sono bestie da diorama scolastico, non li puoi ‘spendere’ per tumulare il caos nelle sorti umane e progressive; sono mostri, sono perdenti. Fuori tempo, troppo a ridosso di un dire d’infanzia, dove si cavalcava la pantera, fatale falena, e il sole era ancora in feto. 

Si dirà allora di un airone cinerino, sul ciglio, elegiaco per eleganza – eravamo oltre Modigliana, le rocche, i gibbosi vigneti. Di Campana, ormai, un dromedario di versi. L’airone che all’imbeccata è il più pronto a volgersi in Buddha delle alture. 

Antonio Porta ha scritto inni in forma d’airone, di alare bellezza:

quando il mio essere si fa opaco lo distendo
ai tuoi piedi, airone
io disteso come prateria
invasa dalle acque dei semi
opposto ai buchi luminosi dello stellato
come in attesa di essere ancora luce
all’alba quando il conflitto si placa e si racchiude
in un uovo minuscolo
dove già pulsa il cuore di un usignolo
dove batte il minuscolo mio cuore neonato
come milioni di altri muscoli nascosti
potenti macchine da guerra che avanzano
che scuotono la cintura della terra
e misurano ogni altro respiro

Re delle risaie, moltiplicato in quegli specchi d’acqua, l’airone, da bambino, nei pressi impressionanti di Novara, mi pareva il simbolo di qualcosa di eterno, di immobile. Il destriero dei morti, purosangue degli angeli. 

Più tardi, piuttosto, ho visto un falco che calava da un ulivo, gli artigli tesi, come se conoscesse la stazione eretta, come fosse uso al secchio, alla rete, al frantoio. Calava, bellissimo in esattezza, su un ratto, presumo. Eravamo già romagnoli, nelle terre contese al Malatesta, su colli di cui conosco il vocalizzo. 

Questa terra che fa sbocciare alberi e rapaci – questa terra esulta. Ne è a vettovaglia la luna, disattenta alla più amara portata. 

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