L’esodo dei giovani italiani all’estero non è una novità, ma il vero problema è che non tornano più. Secondo il report della Fondazione Nord Est, tra il 2011 e il 2023, oltre 550 mila giovani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato il Paese, mentre solo 172 mila sono rientrati, determinando un saldo negativo di 377 mila unità. Solo nel biennio 2022-2023, i giovani emigrati sono stati circa 100 mila, quasi il triplo dei 37 mila rientrati. Contrariamente alla percezione comune, il fenomeno non riguarda solo il Sud: il Nord ha registrato un saldo negativo di 180 mila giovani nei dodici anni, con Lombardia e Veneto al vertice della classifica delle regioni più colpite. “Il problema non è tanto l’emigrazione dei giovani italiani, quanto l’incapacità del nostro Paese di attrarre giovani provenienti da altri Paesi avanzati”, ha detto ad Huffpost Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est.
Siamo abituati a vedere tanti giovani del Sud che si trasferiscono al Nord, ma da questi dati vediamo che dalle regioni settentrionali si va invece all’estero. Si può parlare di un doppio flusso?
Sicuramente i giovani settentrionali si spostano verso l’estero, mentre dal Sud il fenomeno è doppio. Alcuni vanno direttamente all’estero, soprattutto da Sicilia e Campania, ma per molti il Nord rappresenta già un altro Paese in termini di opportunità e tenore di vita, con un reddito pro capite doppio rispetto al Sud. Poi non è detto che il trasferimento al Nord non preluda a un’emigrazione successiva: può essere un percorso in due tappe, oppure si possono fermare nelle città del Nord o del Centro. Molti giovani meridionali vanno nel Lazio, per esempio.
Anche dalle regioni più ricche, però, vediamo adesso un’emigrazione verso l’estero. Cosa rende poco attrattivo il Nord rispetto agli altri Paesi?
Tantissimi indicano come primo fattore la questione retributiva: i giovani in Italia sono pagati molto meno, il che è innegabile. Anche nelle regioni più ricche, il ritardo di crescita accumulato negli ultimi 25 anni ha ampliato il divario con le economie più avanzate. Tuttavia, il nostro sondaggio tra i giovani expat ha evidenziato due profili principali di chi parte. Ci sono i giovani che emigrano “per scelta”, provenienti da famiglie con uno status socioeconomico più elevato. Questi lasciano l’Italia per proseguire gli studi o per approfittare di opportunità lavorative all’estero. Ci sono poi quelli che emigrano “per necessità”, ovvero coloro che provengono da contesti più svantaggiati. Per loro, le principali motivazioni sono il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Per “migliori condizioni di vita” non si intende il bel paesaggio e il buon cibo, ma la facilità della quotidianità: meno burocrazia, maggiore inclusione sociale e rispetto per la diversità. Sul fronte lavorativo, invece, la questione non è solo salariale: ciò che conta è la possibilità di apprendere, crescere professionalmente e lavorare in ambienti innovativi e stimolanti. In altri Paesi, i giovani sono visti come una risorsa e vengono valorizzati fin dall’inizio. In Italia, invece, vengono spesso considerati un costo e trattati come inesperti che devono ancora “fare gavetta”.
Non si potrebbe considerare la nuova normalità il fatto che i giovani si trasferiscano all’estero, dato che gli orizzonti sono ormai europei?
Il problema non è tanto l’emigrazione dei giovani italiani, quanto l’incapacità del nostro Paese di attrarre giovani provenienti da altri Paesi avanzati. Il rapporto tra italiani che vanno all’estero e stranieri che si trasferiscono qui è di 9 a 1, che nel Nord Italia scende 7 a 1. Ciò significa che per ogni giovane che arriva in Italia, nove italiani lasciano il Paese. Negli altri Paesi europei i flussi sono bilaterali, mentre Svizzera e Spagna sono quelli che attraggono più giovani. La Svizzera ha un’attrattività naturale per via della sua posizione geografica e del multilinguismo, ma sorprende il caso della Spagna, che pur non essendo baricentrica riesce a offrire condizioni lavorative e di vita più favorevoli rispetto all’Italia. Questo dimostra che non è solo una questione geografica, ma di politiche e opportunità offerte ai giovani.
L’Italia ha varato negli anni misure per il rientro dei giovani, seppur depotenziate negli ultimi anni. Sono efficaci o non bastano gli incentivi fiscali per invertire la tendenza?
Le agevolazioni fiscali possono attrarre una parte dei giovani emigrati, soprattutto quelli più qualificati come ricercatori e talenti di punta. Tuttavia, il solo incentivo economico non è sufficiente se non si garantiscono condizioni favorevoli per il loro lavoro e la loro crescita. Un ricercatore potrebbe tornare in Italia se avesse accesso a un centro di eccellenza e, in aggiunta, un vantaggio fiscale. Ma se manca il primo elemento, il rischio è che, una volta scaduto l’incentivo, questi giovani ripartano. Inoltre, il problema riguarda anche chi parte per necessità. L’80% di loro svolge lavori per i quali le imprese italiane faticano a trovare personale (operai specializzati, impiegati, lavoratori non qualificati), eppure nessuno ha mai pensato a incentivi per il loro rientro. Queste misure devono essere parte di un piano più ampio, che coinvolga aziende, burocrazia, trasporti e politiche abitative. In Spagna, ad esempio, hanno posto limiti agli affitti brevi per facilitare l’accesso alla casa ai giovani.
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