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Se c’è un errore tanto comune quanto disarmante, è pensare al vino come a un oggetto immutabile, scolpito nel marmo della tradizione. Un’illusione confortante, certo, ma pericolosamente distante dalla realtà. La colpa, in gran parte, è di chi il vino lo racconta: un coro di nostalgici che trasforma il prodotto della fermentazione in una reliquia, un monumento all’immobilità. Una sorta di miraggio bucolico che soddisfa più i nostri istinti romantici che non il palato o la logica.

Il vino, si dice, è vincolato alla tradizione. Ma il termine “tradizione” qui è una gabbia dorata, un pretesto per imbalsamare la storia e santificare la mitologia. Quando si vuole dargli una pennellata di modernità, ci si aggrappa alla parola “innovazione”, creando una combinazione talmente vuota e stantìa che fa accapponare la pelle. Tradizione e innovazione, unite, sono la versione enoica di “splendida cornice”: due parole svuotate di significato, buone solo per riempire brochure e discorsi da convegno.

Eppure, negli ultimi mesi, il mondo del vino sta affrontando un dibattito che suona quasi epocale. Un momento che percepiamo come cruciale, anche se non riusciamo a scrollarci di dosso la sensazione di stare osservando un tramonto, non un’alba. Una fine più che un nuovo inizio.
Invece…

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Il vino non è mai stato fermo. Mai. Sin dai primi grappoli fermentati spontaneamente nelle anfore di terracotta, l’umanità non ha mai smesso di manipolare, reinventare, stravolgere il processo di vinificazione. Pensare al vino come a un’arte classica – intoccabile e pura – è una favola. Il vino è stato, è e sarà sempre un laboratorio, un esperimento senza fine.

L’illusione di classicità è forse il trucco più riuscito del vino. Quando vi perdete in un calice di Barolo pensando alle colline piemontesi e ai racconti della nonna, in realtà state bevendo il risultato di secoli di sperimentazioni, rivoluzioni tecnologiche e audaci colpi di scena. La scienza, nel frattempo, ha cambiato ogni aspetto di questo mondo, anche se non ve ne accorgete. E ogni epoca ha avuto i suoi nostalgici, quelli che gridavano alla fine del vino.

Oggi non è diverso. Si dice che il vino stia perdendo la sua centralità culturale, che i giovani lo snobbino, che ci siano troppe alternative. E allora? Il vino ha già vissuto decine di crisi simili, e ogni volta ne è uscito reinventato. Se il vino fosse immutabile, sarebbe morto da tempo. Invece è vivo, proprio perché cambia.

Esiste un libro fondamentale per capire di cosa stiamo parlando.

Lo ha scritto un premio nobel per la chimica, Ilya Prigogine, che ha studiato come i concetti di tempo, caos e irreversibilità abbiano trasformato la nostra comprensione del mondo e della storia. Nel suo La fine delle certezze, l’autore analizza l’evoluzione delle civiltà attraverso processi complessi, caratterizzati da momenti di crisi e discontinuità che, pur potendo apparire casuali o caotici, rispondono in realtà a una logica di adattamento e trasformazione.

Ad esempio, i cambiamenti climatici e le trasformazioni geografiche influenzano nascita, sviluppo e declino delle civiltà, così come per le rivoluzioni sociali e tecnologiche, che possono essere interpretate come biforcazioni, ovvero punti critici in cui la società sceglie una nuova direzione. Ma tutto fa parte di un sistema complesso, che non sempre riusciamo a percepire, affossati dalla contingenza e dall’oggi. Alzare lo sguardo non è mai facile né banale, purtroppo.

E allora facciamo uno sforzo di lucidità, mettendo in fila un paio di cose.

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Quante innovazioni ha vissuto il mondo del vino negli ultimi vent’anni? Basta anche solo un rapido sguardo per smontare l’illusione della sua immobilità.

Fa quasi sobbalzare pensare che la prima etichetta biologica risalga solo al 2012. Qualcosa che oggi diamo per scontato, quasi banale o addirittura già superato, non ha nemmeno l’età per frequentare il liceo. E poi ci sono i fenomeni – intesi come oggetto di studio – dei vini naturali e della biodinamica, movimenti che affondano le radici nella metà del Novecento ma che solo nelle ultime decadi hanno davvero scardinato certezze, ridefinendo le regole del gioco.

E i metodi produttivi? Pet-Nat, metodi ancestrali, vini senza solfiti, col fondo, piquette e una sfilza di nuove tipologie che, almeno nella loro forma attuale, sono praticamente neonati. E i contenitori? Il legno non è più il solo protagonista: anfore, terracotta, uova di cemento, insomma una continua evoluzione tra sperimentazione tecnologica e tendenze di mercato. Senza dimenticare gli ambienti di affinamento: sott’acqua, nello spazio, in luoghi che un vignaiolo di pochi anni fa avrebbe liquidato come assurdità.

E poi arrivano loro, le vere eresie: i vini vegani ma soprattutto i famigerati vini dealcolati — per alcuni la naturale evoluzione del settore, per altri un punto di non ritorno. Un crocevia che potrebbe ridefinire il futuro del vino.

Ma tutto questo non è un incidente della modernità. È l’essenza stessa del vino. Ogni generazione ha lasciato il proprio segno, ogni epoca ha riscritto le regole. Chi oggi si aggrappa disperatamente alla tradizione non sta difendendo il vino, ma un’illusione, una storia che non è mai esistita.

Il vino non si conserva nel tempo. Vive. Non si limita a esistere, si trasforma.
E l’unico modo per essere immortale, dopotutto, è cambiare. Sempre.

[Cover: The New York Public Library Digital Collections]

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