La cecità e un’etica della disabilità

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Padre Justin Glyn è un gesuita non vedente neozelandese, che ha rilanciato la denuncia: la società e le chiese rischiano di scivolare ogni giorno in pregiudizi contro i disabili e le disabilità [1]. Edifici inaccessibili, documenti archiviati in modo difficilmente fruibile, gruppi di dialogo “per soli disabili” separati dall’ordinaria vita ecclesiale, stazioni ricreative alienanti che impediscono una partecipazione politico-religiosa e una cittadinanza attiva. 

L’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti pubblicata nel 2020 ha contestato i ghetti in cui vengono esiliati “strani” corpi che vengono valutati “alieni” dalla comunità.

Ma l’indagine sulle cause di discriminazione deve spingersi in profondità e fare i conti con alcune convinzioni religiosamente infondate.

Le esponiamo di seguito.  

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Un pregiudizio è questo. Se la disabilità è conseguenza del peccato d’origine, è una condizione degradata e non un’esperienza umanamente significativa. La teologia non avrebbe niente a che fare con le categorie di “in-abilità”, né tantomeno tale nozione potrebbe applicarsi a Dio. È una situazione aliena e assurda. È come una malattia grave, qualcosa da cui “guarire”, ma non una condizione e un tempo per “volere”, ossia per decidere di sé e del mondo. 

La seconda tesi, opposta alla precedente, è che i disabili siano povere vittime e rappresentino addirittura icone privilegiate del Figlio crocifisso e dunque immagini speciali dell’unico Dio invisibile. Il motivo? I diversamente abili avrebbero ricevuto, per predestinazione, la grazia di soffrire come e più di tutti e, in aggiunta, a beneficio di tutti. Essi hanno preceduto o completato le sofferenze patite dal Nazareno perseguitato. Il dolore da menomazione avrebbe un senso espiativo e contribuirebbe in tal modo all’armonia di un mondo, che è comunque il migliore dei mondi possibili. 

Glyn contesta lo “statuto speciale”, che la società dei presunti “sani” riserva a un gruppo debole di cittadini o credenti. Nessun essere umano – scrive Glyn – vanta infatti una completezza di capacità. Siamo esseri limitati, le nostre abilità sono sempre qualitativamente specifiche e una qualche menomazione o impairment (cecità, paralisi…), più o meno visibile, più o meno pesante, impaccia o impaccerà, con la senescenza, le nostre performance, impedendo la fruizione delle risorse sociali disponibili.  

Glyn racconta di essere stato accolto con una delicata confidenza, proprio in quanto soggetto non vedente, da coloro che gli hanno chiesto aiuto sul piano spirituale e sacramentale. Essi lo hanno percepito come una persona abituata a tollerare una menomazione senza cadere nella disperazione.  

Un altro difetto linguistico è la generalizzazione. Le stesse associazioni di auto-aiuto dovrebbero fare attenzione quando usano la prima persona plurale “noi”. Ogni situazione va valutata con finezza di discernimento e non raggruppata in macro-categorie binarie (sano/malato, normale/patologico, curabile/incurabile, dolente/impassibile). Si dovrebbe pertanto mettere al centro del discorso il singolo soggetto diversamente abile, poiché è lui, con la sua originale e unica esistenza, che merita impegno assistenziale.

Non la patologia, ma il malato dovrebbe costituire il nostro focus

Perciò certi disabili devono poter ricoprire incarichi sociali, politici ed ecclesiali e teologici, se è la loro aspirazione. Inoltre, l’autonomia evolutiva e prestazionale dei singoli individui è un mito delle società capitalistiche e medicalizzate. Nessuno è un’isola. Confidiamo nella fraternité (un ideale laicamente moderno) perché senza forme di prossimità la liberté diventa un’astratta, sterile possibilità di scelta e l’egalité si riduce a una omogeneità di facciata, che copre, grazie a mirabolanti trovate pubblicitarie, le ampie zone di ingiustizia, diseguaglianza e discriminazione nel mondo lavorativo, scolastico, sessuale, religioso. 

Sul piano cristiano la teologia della disabilità ha da ricordare che san Paolo attribuiva, nella prima lettera ai Corinzi, un ruolo significativo alle membra più deboli della comunità.

Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme e se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui. Nel libro di Genesi, quando Dio decide di creare qualcuno a sua immagine e somiglianza non ha in mente un essere capace di prestazioni psicofisiche da primato, ma in grado di avvertire e sperimentare il bisogno di legami, l’inclinazione a cercare aiuto per esigenze primarie, l’attitudine a esprimere desideri e a valutare il grado di risposta proveniente da chi lo circonda. 

Essendo tutti noi figli di Dio, sani o no, menomati poco o tanto, è comprensibile che Gesù abbia reinterpretato in senso misericordioso la Torah: il sabato è fatto per l’uomo; è un “diverso”, un samaritano, che si accorge del bisognoso; i lebbrosi sono toccati e guariti; gli indemoniati godono di un’interlocuzione speciale; l’eunuco è battezzato; un cadavere ormai puzzolente è restituito vivo alla famiglia e così via. Parabole e miracoli vanno nella medesima direzione: è alle porte un Regno in cui chi ora piange sarà consolato.  

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Glyn ricorda la promessa divina di redimere ciò che la prima creazione ha perduto, stipulando un’alleanza (berit, in ebraico) col suo popolo. Per un cristiano ciò si compie con il risorto, che mantiene nel suo corpo i segni della “disabilità” terrena: le ferite agli arti e al costato. 

Per chi non crede, commentiamo noi, la speranza di liberazione dal male è un imperativo categorico che “risorge” anche dopo cadute, malattie e  frustrazioni.

Per il neomarxista Ernst Bloch è un’immagine futura di vita buona e società giusta, che rompe le catene delle attuali contraddizioni. Per tutti vale questa legge: noi assumiamo e portiamo su di noi, per curare o persino “redimere”. Noi empatizziamo col disagio altrui, riconosciamolo. Non è lecito mantenere la distanza di sicurezza tipica dell’indifferenza!  



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