Dopo quasi 2500 giorni si conclude l’odissea giudiziaria di Mimmo Lucano. La Corte di Cassazione, al termine di cinque ore di camera di consiglio, pronuncia un verdetto solo in apparenza salomonico: rigettati i ricorsi della Pg e della difesa. Perché tra le pieghe del codice penale tutti i reati non hanno evidentemente lo stesso peso. E una truffa aggravata non è equiparabile ad un falso.
Una linea, intanto, i giudici capitolini di piazza Cavour ieri pomeriggio l’hanno tracciata in via definitiva. Il sistema di accoglienza multietnica realizzato in questi ultimi venti anni nella Locride dall’europarlamentare di Avs e attuale sindaco di Riace non era una truffa. Respinto, dunque, in quanto giudicato inammissibile il ricorso della Procura generale di Reggio Calabria che chiedeva l’annullamento con rinvio della sentenza di appello che aveva assolto Lucano e altri 12 imputati dai reati di truffa ai danni dello Stato, abuso di ufficio e falso relativamente a 56 delibere comunali (quest’ultimo crimine ascritto al solo Lucano).
IL MODELLO RIACE non era fraudolento e Lucano non si è arricchito come aveva sentenziato il tribunale di Locri nell’ottobre del 2021, condannandolo a 13 anni di reclusione e un milione di euro di multa. Una tesi demolita 2 anni più tardi dai giudici di seconde cure secondo i quali non si erano realizzata l’associazione a delinquere (la Procura generale, sul punto, non aveva nemmeno impugnato l’assoluzione), non si era verificata alcuna truffa e men che meno c’era stato arricchimento personale degli imputati.
COME NOTO, all’inizio dell’inchiesta, i pm avevano accusato l’ex sindaco di Riace di una truffa «con conseguente ingiusto profitto di 10 milioni di euro». Per il Riesame, invece, la cifra era stata ridimensionata a 343mila euro cioè «la differenza tra quanto ottenuto e le spese realmente effettuate». La Corte d’Appello infine aveva certificato che Lucano non aveva preso nemmeno quelli.
È vero che la Cassazione ha respinto ieri anche il ricorso incidentale presentato dalla difesa, che chiedeva l’annullamento della sentenza di appello per il falso relativo a una determina per un concerto, per la quale Lucano era stato condannato a un anno e mezzo. Ma trattasi di un fatto decontestualizzato dal sistema di accoglienza e che avrebbe avuto un senso processuale solo nel caso in cui fosse stata contestata la continuazione del reato ovvero l’istituto che punisce con un aumento di pena una pluralità di violazioni a seguito di plurime condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso. Ma i giudici di piazza Castello, sede della Corte di appello reggina, avevano già espunto tale “continuazione” a differenza degli omologhi locresi.
E IL FALSO per il concerto è rimasto lì. Come un feticcio a cui si aggrappa ora disperatamente la propaganda della destra per dire che “Lucano è stato condannato in giudicato”. Senza considerare peraltro che falsitas quae nemini nocet non punitur, e dunque non dovrebbe essere neanche punibile una falsità che non nuoce a nessuno. La sentenza d’appello, che esce inalterata in toto, aveva accolto praticamente tutti i punti principali sollevati dai difensori, gli avvocati Pisapia e Daqua, e lanciato critiche acuminate alla sentenza di prime cure contestandone la dimensione elefantiaca «che offusca le ragioni della decisione», oltre che «l’integrale ed acritica trascrizione delle prove».
UN APPROCCIO seguito dal collegio d’appello che aveva aperto una distanza abissale con i giudici di Locri a cui era stata contestata una malcelata politicizzazione della decisione a discapito delle tecnicalità giuspenaliste e della solidità dei capi d’imputazione. Nello specifico della truffa, unico reato di peso sindacato in Cassazione dalla Pg, sarebbe mancata «la prova degli elementi costitutivi del reato». Anche perché le intercettazioni, su cui si fondava l’impianto accusatorio, erano state giudicate inammissibili a causa di un utilizzo irrituale delle captazioni (sostenuto su questo giornale da autorevoli giuristi) dovuto al fatto che «esse furono inizialmente richieste ed autorizzate per i reati di cui agli artt. 317, 323 e 640 bis c.p. e sulla scorta della prima relazione ispettiva».
Non era possibile, ovviamente, intercettare per l’ipotesi di abuso d’ufficio (poi tramutato in sentenza addirittura nel reato di truffa, di cui non vi è prova), per cui le captazioni erano state effettuate fuori dai casi previsti dalla legge. Lucano è stato condannato in via definitiva a 18 mesi con pena sospesa vale a dire che non verrà applicata per un determinato periodo di tempo. Al termine del quale il reato si estinguerà.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link