Il cacciatore di veleni | il manifesto

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Il fisico imponente, lo sguardo penetrante di chi sa ascoltare senza l’urgenza di colmare il silenzio. I panni dell’investigatore Rino Martini non li ha dismessi nemmeno quando ha lasciato il Corpo forestale dello Stato alla fine del 1995, chiamato dallo storico ambientalista Walter Ganapini a dirigere l’Amsa, l’azienda di raccolta rifiuti di Milano. Per tutti era, ed è rimasto fino all’ultimo, «il colonnello». Parlava pochissimo, ma agiva in modo fulmineo e incisivo. Martini ha gestito le più importanti indagini sui crimini ambientali negli anni ’80 e ’90, coordinando un nucleo di investigatori che da un’anonima caserma alla periferia di Brescia lavorava con le procure di mezza Italia. E ha dato la caccia ai trafficanti di scorie e veleni, impegnati a far sparire riservatamente il lato oscuro dell’industrializzazione italiana.

SI È SPENTO IERI a Peschiera del Garda, nel Veronese, a 74 anni. Martini e il suo nucleo investigativo intuirono per primi i grandi network criminali dietro il traffico di rifiuti, almeno un decennio prima delle inchieste sull’incrocio tra la criminalità casalese e gli sversamenti di scorie industriali. Non era solo logistica, ma un sistema imprenditoriale con broker, intermediari, gruppi finanziari occulti, armatori, politici pronti ad autorizzare qualunque cosa. Ragnatele che si celavano spesso dietro un ufficio con appena un fax in grado di movimentare migliaia di tonnellate di veleni in Italia e in Europa. E poi nel mondo, a bordo di cargo ormai a fine vita.

Quelle inchieste, raccontate anche sulle pagine del manifesto, oggi appaiono un ricordo lontano. Leggendo le pagine di quei faldoni ormai ingialliti risultano evidenti i collegamenti tra la logistica dei veleni e i gruppi specializzati nell’esportazione di armi, spesso in violazione di ogni tipo di embargo. Una specialità tutta italiana, tanto che le norme internazionali che regolano i trasporti transfrontalieri di rifiuti, la convenzione di Basilea, venne firmata nel 1989 proprio dopo la scoperta di un gigantesco traffico tra l’Italia e Libano. Uno dei tanti dossier che proprio Rino Martini ha sviluppato. È grazie alle sue conoscenze che l’indagine sulle “navi dei veleni”, imbarcazioni sospettate di essere cariche di veleni e talvolta di scorie radioattive affondate deliberatamente nel Mediterraneo a partire dalla fine degli anni ’80, raggiunge in pochi mesi nel ’95 un livello di approfondimento tale che avrebbe destato preoccupazione in alcuni pezzi dei servizi segreti, secondo quanto ricostruito da investigatori e magistrati stessi.

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L’IMPULSO fondamentale all’inchiesta sulle navi arriva proprio dalla Forestale di Brescia, il 13 maggio del 1995, quando una fonte confidenziale accetta di presentarsi agli investigatori del nucleo di Martini per riferire «circostanze e fatti relativi allo smaltimento illecito dei rifiuti di vario genere sul territorio italiano». Alla base c’era un accordo preciso, reso possibile dal codice di procedura penale: il segreto sulla sua identità. Con una certa dose di ironia, Martini dà alla fonte un nome eloquente: «Pinocchio».

Ma le informazioni che fornisce sono serissime e circostanziate, in particolare su una nave salpata da La Spezia, la Rigel, e affondata dolosamente al largo delle coste calabresi il 21 settembre 1987, che secondo l’informatore avrebbe contenuto un quantitativo di «uranio additivato». L’inchiesta si sviluppa in fretta a La Spezia e in Calabria, grazie a un altro investigatore d’eccezione: il capitano di corvetta Natale De Grazia, della Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, che riesce a ricostruire le vere coordinate di affondamento della nave. De Grazia, punta di diamante del pool coordinato da Martini, muore in missione il 13 dicembre ’95, mentre si sta recando a La Spezia per interrogare alcuni marinai, sicuro di aver individuato, come dirà il magistrato Nicola Maria Pace, allora procuratore di Matera, «il punto esatto in cui è affondata la Rigel».

LA VERA PARTITA era quella del recupero: nella fossa dello Ionio, dove il mare è profondo oltre 3000 metri, la nave era di difficile ritrovamento. Ma la possibilità di stabilire una volta per tutte se vi fosse effettivamente un carico pericoloso di scorie e materiale radioattivo in fondo al nostro mare avrebbe cambiato per sempre la storia delle “navi a perdere”. Non sarà possibile. De Grazia muore poco dopo una cena con i due carabinieri che lo accompagnavano. Morte naturale, per il medico legale che fece l’autopsia. «Causa tossica» mai cercata all’epoca dai medici, invece, secondo una superperizia ordinata molti anni dopo, nel 2013, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella.

Nella rete degli investigatori della Forestale di Brescia era finito anche il progetto della società Odm di Giorgio Comerio, ingegnere che proponeva di inabissare le scorie radioattive sotto il fondale marino. Martini aveva iniziato le sue investigazioni ancor prima dell’istituzione del nucleo operativo ecologico dei carabinieri negli anni ’80. La prima grande indagine aveva riguardato la società Petroldragon, che era riuscita a stoccare migliaia di metri cubi di rifiuti negli ex depositi petroliferi tra il Piemonte e la Lombardia, sostenendo di poter ricavare combustibile dai rifiuti. Quelle scorie però rimasero abbandonate nei depositi, bonificate solo anni dopo a spese dello Stato.

NEGLI ANNI DI MANI PULITE, il nucleo di Martini godeva di grande credito presso la Procura di Milano. Walter Ganapini, co-fondatore di Legambiente e presidente di Greenpeace dal 2005 al 2007, ricorda che «Francesco Saverio Borrelli lo chiamava ‘il mio Panzer’, riferendosi al fatto che era un investigatore capace di formidabili sfondamenti anche davanti ai muri di gomma». L’inchiesta sulle navi dei veleni segnò la fine della sua carriera di ufficiale. «Lasciò per tutelare la famiglia», spiega al manifesto la figlia Caterina. Dopo la morte di De Grazia capì che non era possibile spingersi oltre.



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