Referendum sul Jobs Act, Luigino Pozzo (Confindustria Udine): «Tornare indietro sarebbe insensato»

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di
Carlo Tomaso Parmegiani

Per le imprese il giudizio sulla legge rimane positivo: «Il reintegro automatico non può che dare problemi»

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E letto da un mese esatto, il 10 gennaio, Luigino Pozzo è il nuovo presidente di Confindustria Udine. Fondatore di Pmp Industries di Coseano (Udine) che, con 1.200 dipendenti, è fra i leader mondiali nei sistemi integrati di trasmissione, Pozzo nel suo programma ha ribadito la centralità dell’impresa e ha deciso di puntare su temi quali il lavoro e l’innovazione.

Presidente Pozzo, in tema di lavoro sono è appena stati appena approvati i referendum che mirano a modificare le norme introdotte dal Jobs Act. Come vi orientate nel giudizio?
«Il Jobs Act, a nostro giudizio una legge positiva, in questi anni è stato ripetutamente modificato (in peggio) e questo referendum, che riteniamo frutto di una visione non adeguata ai tempi, finirebbe, de facto, per annullarlo del tutto. Bisognerebbe, invece, tornare ai contenuti originali di una legge che era sicuramente un passo avanti. Tornare all’obbligo di reintegro sarebbe insensato. Questa richiesta è la dimostrazione che si continua a non comprendere cosa siano oggi le aziende. Nessun imprenditore procede a un licenziamento a cuor leggero. Prima di licenziare una persona bisogna avere motivi validi, non solo perché lo prevede la legge, ma perché, vista anche la grande carenza di lavoratori, nessuno licenzia tanto per farlo o per motivi futili. Se si decide di licenziare lo si fa per tutelare l’impresa e gli altri lavoratori».




















































Ma se il licenziamento è senza giusta causa…
«Se anche accade che il licenziamento sia considerato dal giudice del lavoro “senza giusta causa”, tornare al reintegro automatico non ha senso: se un lavoratore è stato licenziato, vuol dire che la sua presenza in azienda creava problemi, diseconomie, inefficienze e che è venuto meno il rapporto di fiducia fra lavoratore e l’impresa. Il reintegro automatico non può che creare problemi all’azienda e, forse, anche mettere il lavoratore in una condizione non piacevole. La soluzione della corresponsione di un’indennità, che è adottata in gran parte dei Paesi del mondo, è la migliore e mi pare che le indennità previste oggi siano adeguate».

Il sindacato, però, sostiene che il Jobs Act ha precarizzato il lavoro e ha favorito le aziende «border line» dove i licenziamenti avvengono spesso in maniera illegittima.
«Comprendo la preoccupazione del sindacato. Ci vuole cautela nell’esaminare le situazioni che possano rivelare gestioni aziendali poco serie perché il nostro obiettivo è quello di non lasciare indietro nessuno. Quel che dobbiamo fare, però, e il sindacato dovrebbe comprenderlo, non è irrigidire ulteriormente il nostro mercato del lavoro, che è già uno dei più lenti e burocratizzati del pianeta, ma renderlo più efficiente per far sì che, come succede negli Usa, chi perde il lavoro possa ritrovarlo in tempi brevi. Un mercato del lavoro più efficiente e libero, infatti, come si dimostra altrove, crea maggiore competitività delle imprese, più posti di lavoro e salari più alti, andando a vantaggio non solo delle imprese ma soprattutto dei lavoratori. Poi, se c’è qualcuno che si comporta male o in modo illegale, quella persona va sanzionata, ma non bisogna bloccare tutti quelli che lavorano in modo serio e corretto. L’obiettivo che abbiamo in comune con il sindacato è quello di supportare i lavoratori, il ceto medio, le famiglie ma, al momento, non concordiamo sul metodo».

A proposito di salari: secondo le statistiche quelli italiani non crescono da vent’anni. Se ne parla molto ma non si trova una soluzione e la politica, i sindacati e gli imprenditori sembrano rimpallarsi le responsabilità. Come se ne esce?
«Premesso che non in tutti i settori la situazione è uguale, ad esempio nella metalmeccanica l’aumento del contratto dal giugno 2023 si attestato a circa il 14%, il tema dei salari è importante. Non capisco, però, cosa si possa chiedere ancora alle imprese: nel nostro Paese, il costo per l’azienda è mediamente 1,8 volte lo stipendio netto, a causa dell’alta pressione fiscale. Tale rapporto arriva anche a 2,2 nelle aziende meccaniche. Nei Paesi industrializzati varia dall’1,4 degli Usa all’1,9% della Germania. Però, con riferimento a quest’ultimo Paese, la quota dei contributi a carico dell’impresa è più ampia del 44% in Italia. Le statistiche internazionali per l’Italia (Ocse e Eurostat) considerano, inoltre, solo la contribuzione Inps. Se si includono Tfr e contributi Inail, il carico fiscale, lato impresa, aumenta ulteriormente e il cuneo italiano supera quello tedesco. La soluzione deve essere trovata dai governi. Noi suggeriamo da tempo di abbassare il cuneo fiscale, cosa che in parte è avvenuta, e di farlo in modo permanente. Bisognerebbe, inoltre, detassare, almeno parzialmente, premi e straordinari che, altrimenti, non sono utilizzati dalle aziende e, quindi, lo Stato non ha alcun guadagno. Se, invece, si riuscissero a mettere più soldi in tasca ai lavoratori, si avrebbe una crescita generale dell’economia, riducendo il numero di persone che necessitano di assistenza o migrano in Paesi dove le paghe sono più alte, scongiurando le chiusure di aziende di ogni settore, in crisi a seguito del calo dei consumi interni».

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