Il jolly di Giorgia: tornare al voto

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Game over. È ufficialmente iniziata la caccia al governo Meloni. E, davanti a questo assedio, fa bene la premier ad alzare le barricate. Per uscire dall’accerchiamento resta solo un’arma vincente: le elezioni anticipate, con uno scacco matto in piena regola, visto lo sbando dell’attuale litigiosa sinistra. Addirittura, senza limitarsi a Palazzo Chigi, essendo per Giorgia il Quirinale quasi a “portata di età” nel 2029.

La pressione, tuttavia, non è solo interna: i ministri sono in ordine sparso, il caos regna sovrano nei palazzi dell’intelligence e il nervosismo serpeggia tra gli alleati, che si insultano a colpi di chat. Il fronte si è allargato oltre confine, dove alcuni governi, convinti ormai che Meloni sia l’interlocutore più affidabile per Donald Trump, intendono sbarrarle la strada. Non è certo un caso se il quotidiano più critico è il britannico The Guardian, da sempre vicino ai progressisti e all’ala più coriacea dei Democratici Usa. Anche Parigi, Berlino e Bruxelles la guardano con fastidio. Per non parlare di quegli Stati dotati di intelligence raffinata, come l’Iran, che non gradiscono certi spostamenti geopolitici.

Ma c’è un episodio che ha colpito particolarmente la premier, e non si tratta dell’iniziativa del procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, che l’ha spedita al Tribunale dei Ministri assieme a Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e al sottosegretario Alfredo Mantovano per il pasticciaccio sul “torturatore” libico. Ciò che davvero ha attirato la sua attenzione è il nome del firmatario della denuncia: Luigi Li Gotti (Ligotti, prima del restyling anagrafico).

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Un personaggio di cui Adriano Sofri ha ricostruito le gesta in un formidabile racconto su Il Foglio, dal titolo emblematico: “Solo chi lo ha visto da vicino può capire cosa significa fare i conti con Ligotti”. Un uomo che ha attraversato tutto l’arco politico: dall’ultradestra calabrese a Di Pietro, fino a un sottosegretariato alla Giustizia con Romano Prodi. In passato è stato anche avvocato dell’Arma dei Carabinieri, per poi specializzarsi nella difesa di pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta, il grande accusatore di Giulio Andreotti, e Giovanni Brusca. Buscetta, lo ricordiamo, rientrò in Italia dal Brasile il 15 luglio 1984 con la regia dell’FBI, su un aereo a bordo del quale viaggiava un giovane funzionario di polizia: Gianni De Gennaro, destinato a fare carriera e che, ancora oggi, assieme a Luciano Violante e Marco Minniti, continua a dare le carte.

Quella denuncia viene letta come una chiamata alle armi per giornalisti, magistrati e spioni di ogni genere, pronti a iniziare l’assalto finale al governo. E, con fiuto politico, Giorgia Meloni ha arruolato come legale la senatrice palermitana Giulia Bongiorno, esperta conoscitrice delle procure siciliane. Perché è proprio nel melmoso campo della giustizia che si vuole mettere in crisi il governo. Se il Tribunale dei Ministri dovesse chiedere il rinvio a giudizio di Nordio e la Camera lo bloccasse, si potrebbe assistere alla solita levata di scudi dei “manettari” in servizio permanente effettivo.

Ecco perché Meloni deve evitare ogni rimpasto. Oggi Daniela Santanché o Andrea Delmastro, domani toccherebbe a qualcun altro, in un tiro al bersaglio senza fine. O magari, come scriveva Alessandro Sallusti, il prossimo potrebbe essere qualcuno del suo sempre più ristretto cerchio magico. Ora che è finito nel mirino, ingiustamente, anche il suo capo di gabinetto Gaetano Caputi, scherzosamente definito il gran regista della “merchant bank” di Chigi (vecchio copyright di Guido Rossi) nell’intricata vicenda JPMorgan-Tim-Kkr, che rischia di deflagrare con l’arrivo del ciclone Musk-Starlink. Meglio, quindi, serrare le fila e resistere.

Come uscire da questa situazione, con i servizi di intelligence paralizzati dopo l’uscita a sorpresa dal DIS di Elisabetta Belloni, ora felice di aver trovato un appartamento a lei consono a Bruxelles? La crisi dell’intelligence non riguarda solo i vertici, ma anche gli incroci tra le attività lecite dell’AISE e dell’AISI e quelle meno ortodosse di decine di agenzie investigative, in Italia e all’estero, che da troppo tempo spiano tutto e tutti, giornalisti compresi, a beneficio dei potenti di turno. Un vaso di Pandora che sta per esplodere, con nomi altisonanti.

Il DIS denuncia infatti la Procura di Roma e tutto viene trasferito a Perugia, l’organo dell’accusa competente sulla Capitale. Ma se la Procura di Perugia dovesse indagare qualcuno del governo, quest’ultimo denuncerebbe la Procura di Perugia? A quel punto, chi avrebbe la competenza su Perugia? Insomma, si corre il rischio di trasformare la giustizia in un gioco dell’oca istituzionale.

Nel frattempo, Meloni, con la sua carica esplosiva, ha messo troppa carne al fuoco con molte riforme costituzionali. Il premierato è già vecchio prima ancora di nascere. Poi c’è la separazione delle carriere tra giudici e pm, che porterà alla creazione di due Consigli Superiori della Magistratura. Ma chi li presiederà? Entrambi il Presidente della Repubblica? E se uno dei due si ribellasse, come la mettiamo? In questo scenario di trame e caos giudiziario, ci sono problemi concreti: il dossier albanese che non decolla, il Pnrr e il Pil in panne. Ecco allora che la mossa vincente per Meloni potrebbe essere davvero quella di far saltare il banco e andare al voto anticipato, forte dello straordinario consenso nel Paese.

Così  facendo, coglierebbe di sorpresa sia i suoi alleati sia il centrosinistra, che non avrebbe il tempo di organizzarsi con il “lodo Franceschini” e le solite formule magiche. Votare a fine anno o a inizio 2026 significherebbe riconquistare una maggioranza ancora più ampia. E questa volta, non solo per tornare a Palazzo Chigi, ma per eleggere il prossimo Presidente della Repubblica. Un’occasione più unica che rara per il centrodestra di mettere un proprio uomo (o donna) al Quirinale. E perché non tentare, Giorgia stessa, la scalata al Colle? Nel 2027, Meloni compirà 50 anni, l’età giusta per l’impresa, e re Sergio nel 2029 se ne andrà. Tajani, Salvini e Lupi non potrebbero che accodarsi.

Se vuole giocarsi tutto, deve farlo ora. L’effetto sorpresa potrebbe spianarle la strada, consentendole di rivendicare il merito di aver aumentato il prestigio dell’Italia nel mondo, di aver almeno provato a fare le riforme costituzionali e di aver resistito strenuamente agli attacchi dei soliti noti. Per farlo, ha bisogno di una grande maggioranza per cambiare veramente questo Paese. Altrimenti, rischia anche lei di diventare un’altra occasione perduta. E non lo merita. Chi teme le eventuali contromosse di Sergio Mattarella, con un Draghi da tirare fuori dal cilindro, non deve preoccuparsi: al Colle, dove hanno sciolto le Camere in anticipo solo una volta, sanno – sia pur a malincuore – che da Giorgia non si può prescindere. Ed è lei ad avere in mano il pulsante del Game Over.

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Luigi Bisignani per Il Tempo 9 febbraio 2025

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