L’uragano Trump si abbatte sul clima

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È “l’anno-soglia”. Collocato a conclusione del decennio degli Accordi di Parigi e dei dodici mesi più caldi di sempre, il 2025 apre l’intervallo decisivo per ridurre le emissioni. E evitare che la temperatura globale raggiunga livelli inaccettabili alla fine del secolo. Il margine di manovra è stretto. Come ha confermato l’ultimo Emission gas report del Programma Onu per l’ambiente, per contenere l’aumento entro 1,5 gradi – il limite fissato dai climatologi – occorre un taglio del 42 per cento entro il 2030 e del 57 per cento entro il 2035. Con le politiche attuali, si rischia uno sforamento quasi del doppio. La sforbiciata, ripetono gli scienziati, deve avvenire ora. Il 2025, dunque, dischiuderà la porta sulla strada che conduce alla meta. O all’ebollizione globale, per utilizzare le parole del segretario dell’Onu, António Guterres.

La Conferenza Onu sul clima di novembre – la Cop numero trenta, altra cifra simbolica – dovrà segnare il punto di svolta oppure di caduta. Ai contrastanti fattori che spingono nell’una o nell’altra direzione se ne aggiunge uno ora potenzialmente dirompente: Donald Trump. Appena messo piede allo Studio Ovale, il presidente ha smantellato, con una settantina di ordini esecutivi, l’agenda ambientale del predecessore. Sono stati cancellati le misure federali per limitare l’impiego delle fonti fossili, decine di uffici per la protezione ambientale, il divieto alle estrazioni di petrolio off-shore e alle perforazioni nell’Artico, la sospensione dei permessi per i terminali di gas naturale liquido. Insieme all’obiettivo di decarbonizzare il settore elettrico entro il 2035. Il progetto per la costruzione del controverso oleodotto Kingstone XL è stato ripristinato. Soprattutto è sparita la legge per la riduzione dell’inflazione e i suoi 370 miliardi di dollari di incentivi per le imprese che investivano in rinnovabili.

Un provvedimento grazie al quale gli Usa erano schizzati in cima alla lista della produzione di energie pulite. Per la seconda volta, inoltre, con una mossa dal forte valore simbolico, Washington è uscito dagli Accordi di Parigi. «Una truffa iniqua e unilaterale», li ha definiti, nell’avviare il meccanismo che sommerà, entro un anno, gli Stati Uniti al trio di Paesi Onu – Iran, Yemen e Libia – fuori dall’intesa. Il tutto in base al «chiaro mandato – ha sottolineato il sottosegretario alla stampa della Casa Bianca, Harrison Fields – ricevuto dagli elettori». Nonché alle indicazioni – vedi i cinque punti diffusi dall’American institute of petroleum prima del voto – di Big Oil che ha contribuito alla campagna del leader repubblicano con 445 milioni. La contro-rivoluzione verde di Trump è stata relativamente facile data la fragilità della politica climatica, senz’altro ambiziosa, di Biden. A causa della spaccatura del Congresso, il leader democratico l’aveva incentrata sugli ordini esecutivi, annullabili, appunto, con un tratto di inchiostro. Dalla carta alla realtà, tuttavia, l’inversione di marcia potrebbe non essere così immediata e scontata. Se il processo di transizione ecologica in America – e, dunque, nel resto del mondo, dato che, con l’11 per cento delle emissioni, gli Usa sono il secondo inquinatore mondiale – riuscirà a sopravvivere “all’effetto Donald”, dipenderà dal mix di strategie messe in campo.

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Sullo scenario statunitense peserà, innanzitutto, la “resistenza” degli Stati dem, già mobilitati: 24 governatori azzurri, dalla California a New York, si sono impegnati a rispettare l’intesa di Parigi a dispetto dell’uscita federale. «La gran parte degli oltre 369 milioni di dollari della legge per la riduzione dell’inflazione già investiti in soluzioni “green”, inoltre, sono stati erogati in aree guidate dai repubblicani. Un dietrofront massiccio sembra dunque impossibile», sottolinea Sara Benedetti Michelangeli di Strategic Perspectives. Il punto è dirimente. Più della volontà politica, a salvare la transizione verde potrebbe essere la sua convenienza in termini economici. Nonostante l’entusiasmo con cui i colossi degli idrocarburi hanno accolto il programma del “loro” presidente, non sembrano così motivati a seguire l’invito a “drill, baby, drill”. Con 13,6 milioni di barili al giorno, il petrolio ha raggiunto il picco di produzione proprio durante l’Amministrazione Biden.

Aumentarla ulteriormente, con nuovi investimenti, dunque, potrebbe essere poco redditizio. A meno di un incremento dei prezzi, al momento intorno ai 70 dollari a barile, cosa che, però, va contro il progetto trumpiano di tenere bassa l’inflazione grazie al contenimento del costo dell’energia. Le rinnovabili, poi, rappresentano un buon affare.

In base alle stime dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) – sottolinea Benedetti Michelangeli -, entro il 2035, saranno disponibili 2 miliardi di investimenti in tecnologie pulite. «Ciò significa che il mercato mondiale di cleantech sarà in espansione nonostante il disimpegno Usa. Questo aprirà opportunità per l’Europa nonché per la Cina – sottolinea l’analista di Strategic Perspectives -. In che misura sfrutterà questo vuoto dipenderà da come riuscirà a mobilitare la base manifatturiera interna e a ripensare le relazioni internazionali come mezzo per la prosperità, la sicurezza e l’autonomia strategica del Continente». In questa direzione – continua l’analista – «piano per l’elettrificazione europea che risponda a un chiaro obiettivo di decarbonizzazione unito a nuove regole per gli appalti pubblici in moda da garantire circolarità dei processi produttivi e incentivi per i prodotti a basse emissioni potranno rivelarsi fondamentali».

Allo stesso tempo, Trump non fa mistero della volontà di alzare il prezzo del Gas naturale liquefatto (Gnl) destinato alll’Europa – che ne importa il 47 per cento – in cambio di concessioni commerciali. «Bruxelles dovrà puntare sulla firma di nuovi partenariati strategici. Le Clean trade and investment partnerships (Ctibs) annunciate da Von der Leyen possono esserne la bussola – afferma Benedetti Michelangeli –. Se adeguatamente progettate e munite di uno spazio di dialogo con i Paesi terzi possono allargare la base di scambi commerciali dell’Ue, favorire la decarbonizzazione delle catene del valore e creare mercati globali “green”, il tutto riducendo le dipendenze geoeconomiche e rilanciando il ruolo diplomatico del Continente». È nel Sud del mondo, però, che «”l’effetto Donald” potrebbe causare maggiori sconquassi. L’Amministrazione ha sospeso gli aiuti climatici che Biden aveva portato al record di 11 miliardi nel 2024. «Quasi il 10 per cento dei 116 miliardi di contributi totali raggiunti, in ritardo, nel 2022 per sostenere la transizione ecologica nei Paesi poveri, senza i quali non è possibile contenere l’aumento della temperatura mondiale entro 1,5 gradi», afferma Eleonora Cogo, esperta di finanza internazionale del think tank italiano Ecco. All’ultima Cop, lo scorso novembre a Baku, dopo un estenuante tira e molla, la cifra è stata portata a 300 miliardi l’anno. Meno di un quarto del necessario, secondo gli esperti indipendenti, comunque.

La cosiddetta “road to Cop30” potrebbe, invece del negoziato in atto per aumentare i fondi, diventare battaglia per mantenere almeno quanto pattuito. «È vero che, come il precedente mandato dimostra, nonostante i proclami, Trump non è mai riuscito ad azzerare gli aiuti per il clima», conclude Cogo. Allora, però, il tycoon non aveva così tanti emuli, dall’Ue all’America Latina. L’argentino Javier Milei starebbe pensando di seguirlo nell’addio agli Accordi di Parigi.





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