I talebani hanno chiuso l’unica radio femminile dell’Afghanistan

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In Afghanistan è in corso un complotto del silenzio contro donne e ragazze. Le voci femminili, per il governo fondamentalista dei talebani, devono essere arginate, sistematicamente e metodicamente. Un silenzio tombale, che dall’agosto del 2021, quando gli estremisti islamici sono tornati al potere, stanno imponendo alle cittadine afghane, ridotte a spettri, ombre da intravedere sullo sfondo, lontane persino dalle finestre di casa. Da quell’agosto 2021 sono stati oltre 80 gli editti emessi contro le donne afghane. Tanto che nell’estate del 2024 è stato necessario per le autorità talebane approvare la prima legge sulle non-libertà delle donne che raggruppa tutte quelle precedenti e le va ad accorpare in un unico editto. “Un uccello – aveva detto Meryl Streep a fine settembre 2024 durante un evento sulla situazione delle donne e delle ragazze in Afghanistan nell’ambito dell’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York – può cantare a Kabul, ma una ragazza no, non può farlo in pubblico“, riferendosi all’editto che prevede il divieto assoluto di canto in luoghi pubblici per bambine, ragazze e donne. Poco dopo, era stata annunciata una nuova legge che diceva che se una donna si trova fuori casa, la sua voce non deve essere sentita. La BBC era stata in Afghanistan per un lungo reportage, nel quale aveva intervistato Shabana, il nome è di fantasia, un’adolescente che sognava di laurearsi in economia e che invece si trova oggi a dover frequentare corsi di nascosto, terrorizzata di essere scoperta dalle autorità. Shabana raccontava di una vita di paura, spogliata di ogni gioia residua: “Quando siamo fuori casa abbiamo paura. Quando siamo sull’autobus, abbiamo paura. Non osiamo togliere il burqa. Evitiamo persino di parlare tra di noi, pensando che se qualcuno dei talebani ci sente potrebbe fermarsi e interrogarci”. E concludeva: “Se non possiamo parlare – perché anche vivere? Siamo come cadaveri che si muovono”.

Le parole di Shaban risuonano più dolorose che mai oggi, dopo che è arrivata la notizia della chiusura di Radio Begum, l’unica radio e televisione di donne per le donne nel paese. Martedì 5 febbraio, dunque, un drappello di ufficiali dell’intelligence, assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura, ha fatto irruzione nella sede di Kabul. Gli uomini hanno sequestrato computer, telefoni, hard disk, e arrestato due dipendenti maschi. Le giornaliste, le psicologhe, le teologhe, le educatrici e le dottoresse che dai microfoni dell’emittente nata l’8 marzo 2021 e finanziata anche dall’Unesco non erano presenti negli studi radiofonici e televisivi, perché nemmeno i media sono stati risparmiati dall’odio misogino del regime integralista afghano. Ma lavoravano da casa e resistevano, come tutte le ragazze e le donne in quella prigione a cielo aperto che è diventato l’Afghanistan. Radio Begum è stata fondata l’8 marzo 2021, nella Giornata internazionale della donna, cinque mesi prima che i Talebani salissero al potere, spodestando il governo sostenuto dagli Stati Uniti e attuando una rigida interpretazione della legge islamica. La sua fondatrice, la giornalista svizzero-afgana Hamida Aman, ha poi aperto anche Begum Tv a Parigi nel 2024. “Non siamo coinvolti in alcuna attività politica e il nostro unico impegno è servire il popolo afgano, in particolare le donne afgane”, ha dichiarato un portavoce dell’emittente.

Il ministero dell’Informazione afgano ha reso noto in un comunicato che l’emittente è stata sospesa “per molteplici violazioni”, senza tuttavia specificarle. L’unica accusa esplicitamente formulata è di avere fornito materiali e programmi a una rete televisiva con sede all’estero, contravvenendo a quanto stabilito dalle norme nazionali. Per questo motivo a Radio Begum è stata ritirata temporaneamente la licenza, “in modo da valutare i reati e prendere una decisione finale”, afferma la nota del ministero dell’Informazione. Radio Begum, che da un anno era diventata anche una tv satellitare, trasmetteva, in parte da Parigi, le lezioni previste dai programmi scolastici ufficiali nelle due lingue più diffuse, il pashtun e il dari. In un Paese in cui l’analfabetismo femminile è all’80 per cento contro il 51 per cento di quello maschile, la radio era una opportunità unica per le ragazze di continuare a imparare e per le donne adulte di aprire la mente. L’emittente, infatti, che per volontà della fondatrice Hamida Aman, giornalista afghana-svizzera residente in Francia, aveva preso il nome della nonna – “Principessa” –, non diffondeva solo istruzione, ma attraverso le 18 antenne installate in 20 delle 34 province afghane raggiungeva tre quarti del Paese, trasmetteva dibattiti sull’educazione dei bambini, sui rapporti di coppia, su cosa prevede l’islam rispetto all’età del matrimonio, sulla salute fisica e mentale, forniva nozioni utili alle donne e alle ragazze che per lo più vivono isolate in casa, aprendo agli interventi delle ascoltatrici da casa. Dal 2022, infatti, è stato proibito dai talebani alle ragazze in età da scuola media e superiore di frequentare le lezioni. Tanto che alcune famiglie si sono organizzate con degli insegnanti disposti a rischiare la vita per continuare a insegnare alle ragazze. Si organizzano classi negli scantinati di Kabul, porte e finestre sono sigillate per non dare nell’occhio. E contemporaneamente si ascoltava Radio Begum. Almeno fino ad oggi.

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La sospensione di Radio Begum è l’ultima azione di questo tipo contro i media locali in Afghanistan. A dicembre dello scorso anno, la stazione televisiva Arezo TV è stata chiusa e sette dipendenti sono stati arrestati dopo che le autorità talebane hanno affermato che la sua sede veniva utilizzata per il doppiaggio di programmi “volgari” e vietati. La cancellazione delle figure femminili dalla società afghana è così manifesta che ormai un manifesto tentativo di portare a pieno compimento l’apartheid di genere. La definizione, mutuata da un gruppo di attivisti afghani per i diritti umani nel 2023 dal termine apartheid razziale, che in afrikaans significa “separazione”, vuole denunciare l’oppressione sistemica, la discriminazione e la segregazione operata dai talebani ai danni di un gruppo specifico, ovvero le femmine, in base al genere. “Questa era l’ultima cosa che i talebani potevano fare”, ha detto la scrittrice e attivista afghana Humaira Qaderi alla BBC, “L’Afghanistan per le donne non è un Paese, ma una gabbia”.



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