Quella che Galli Della Loggia vuole insegnare nelle scuole non è “la vera” storia

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In un articolo sul Corriere della Sera, il presidente della Commissione per la revisione delle indicazioni nazionali ha difeso l’impostazione eurocentrica e occidentalista annunciata dal ministro. Ma da qualche decennio storici e storiche hanno elaborato modelli di interpretazione che tentano di creare delle connessioni. Non è ideologia, è la richiesta di un’istruzione di qualità

Il ministro dell’istruzione Valditara ha recentemente affidato ad anticipazioni giornalistiche le novità delle Indicazioni nazionali per i programmi scolastici di Storia del primo ciclo, elaborate da una sottocommissione presieduta da Ernesto Galli Della Loggia.

Il ministero dell’istruzione non ha pubblicato un testo ufficiale, perciò è su quelle anticipazioni che si sono basate nel loro commento le dodici Società scientifiche di storia, dall’antichità alla contemporanea, dalla storia di genere alla public history. Storici e storiche si sono detti preoccupati dalle scelte operate. Al centro delle indicazioni dovrebbe esserci infatti, secondo quanto divulgato, la «storia d’Italia, d’Europa, dell’Occidente», con una decisa opzione che affida al “vecchio mondo” il ruolo di fulcro e guida nell’orientamento alla storia.

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Un’opzione che, per le Società storiche, lascia fuori «le contaminazioni culturali e religiose, i conflitti politici ed economici, gli scambi commerciali che di questo mondo costituiscono le radici».

Data la vaghezza degli annunci ministeriali, a maggior ragione merita attenzione l’articolo in cui proprio Galli Della Loggia, sul Corriere della Sera del 29 gennaio (intitolato “Insegniamo la storia. Ma vera”), rivendica la paternità di quelle scelte e si dedica a confutare le critiche al ruolo centrale assegnato alla penisola italiana e all’Occidente.

Con argomenti datati dal punto di vista storiografico (il superamento dell’eurocentrismo è comunemente accettato da molto tempo) concede che la storia degli altri continenti rientrerà nella storia dell’Occidente a causa delle conquiste e dell’espansione coloniale. Queste dinamiche di invasione violenta e di sfruttamento sono definite “incontro con l’Europa”, con un eufemismo da brividi. Egli concede poi che anche la storia delle sponde del Mediterraneo, compresa quella dell’Islam, verrà inclusa, ma a causa del ruolo di guida esercitato nell’area dalla penisola italiana tra l’Antichità e il Rinascimento.

Le critiche a questa scelta, a suo dire, nascerebbero da «una visione della storia immaginaria e compiacente, sostanzialmente falsa», dettata da mode ideologico-politiche. E le esemplifica con una lunga citazione, che però non è di uno storico ma di un fisico, Carlo Rovelli.

Le storie connesse

Sorprende che per un contemporaneista qual è Galli Della Loggia non contino i processi alla base del nostro presente, fatti di storie distanti e comparabili che si incrociano. Proprio la «grande divergenza» tra l’Europa e l’Asia, ovvero la nascita del capitalismo occidentale, si comprende, secondo K. Pomeranz, ripercorrendo la storia dell’Impero cinese, i livelli di vita, lo stock di capitale pro capite, il mercato della terra, del lavoro e di capitali che, fino al Settecento, erano paragonabili a quelli europei.

I problemi degli imperi Quing in Cina e Mughal in India, insieme alle soluzioni trovate nelle aree europee che, a macchia di leopardo, si sviluppavano e si industrializzavano grazie ai combustibili fossili, sono parte di una medesima storia in cui le posizioni di Oriente e Occidente solo alla fine si gerarchizzano.

Da qualche decennio storici e storiche del sud del mondo hanno elaborato modelli di interpretazione basati sulle connessioni, modelli molto utili agli storici occidentali che li hanno adottati in una prospettiva ormai mutata. Le “storie connesse” di Sanjay Subrahmanyam tengono saldamente insieme le diverse parti del globo da cui, attraverso l’età moderna, è nato il mondo contemporaneo. Si guarda alle interazioni tra culture e popoli come a un elemento costitutivo di equilibri e disequilibri successivi, e non come a un processo teleologico e unidirezionale di diffusione dello sviluppo dal centro europeo alla periferia.

L’analisi multiscala, che fa interagire il livello sovranazionale a un estremo, e quello domestico all’altro, passando per il livello locale e per quello nazionale, serve a collegare gli ambiti dell’agire umano nel tempo e a raccontarli. Non è frutto dell’ideologia: certamente dal punto di vista di chi fa storia moderna la necessità è più evidente e immediata, ma anche nella storia contemporanea questo approccio si sta già usando, per esempio nel caso della storia delle donne, nella quale sfera privata e sfera pubblica si compenetrano tanto strettamente da non consentire di escludere alcuna scala di osservazione.

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I quadri teorici vanno esplicitati ai ragazzini e ragazzine del primo ciclo? Certo che no, ci sarà tempo più avanti. Ma alla base delle indicazioni programmatiche deve stare una storiografia aggiornata che offra loro istruzione di qualità adeguata ai tempi che vivono e alle loro esperienze. Esperienze che comunemente oltrepassano la scala nazionale a causa delle relazioni quotidiane con coetanei di molti paesi e alle sconfinate possibilità di informazione offerte dal web. Sono proprio le persone più piccole ad essere attratte e incuriosite dalle dimensioni lontane e meno note, nel tempo e nello spazio, che ne accendono l’immaginazione storica.

Perché dovrebbero recepire meglio le vicende di popoli antichissimi, ma indoeuropei, come gli antichi popoli italici provenienti da migrazioni da quell’area, di quelle degli imperi americani, cinese, giapponese? Perché lasciare questi nelle nebbie dello stereotipo, mentre l’esperienza di ogni giorno sollecita a conoscerli ed esplorarli?

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