Processo Easyjoint, le dichiarazioni di Luca Marola

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Si avvia alla chiusura il dibattimento del processo contro Easyjoint e la cannabis light. Le dichiarazioni spontanee di Luca Marola, l’imputato principale del processo al Tribunale di Parma.

Tempo di lettura: 3 minuti

Nel tribunale di Parma, Luca Marola, fondatore di EasyJoint e pioniere della cannabis light in Italia, nell’udienza di settimana scorsa ha preso la parola, esponendo la sua versione dei fatti nel processo che lo vede imputato per detenzione e spaccio di stupefacenti. Le sue dichiarazioni spontanee, dense di riferimenti storici e legislativi, tracciano il percorso della cannabis light nel nostro Paese e pongono interrogativi sulla coerenza del quadro normativo.

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Marola ha esordito citando un articolo di Michele Serra pubblicato su Repubblica nel 2021, che descrive la legislazione sulla cannabis come “fumosa”, al punto che in alcune zone d’Italia il commercio del fiore di canapa viene considerato legale, mentre in altre viene perseguito come reato. Questa incertezza normativa, secondo l’imputato, ha creato un sistema instabile, in cui migliaia di agricoltori e imprenditori hanno investito risorse in un mercato senza sapere con certezza se le loro attività fossero legali o meno.

Le origini della legge sulla canapa e il vuoto normativo

Marola ha ricordato il processo legislativo che ha portato alla nascita della legge 242 del 2016, pensata per promuovere la filiera della canapa agricola. Tuttavia, ha sottolineato come nel testo definitivo della legge siano stati eliminati riferimenti espliciti alle infiorescenze e agli estratti, decisione presa per evitare ostacoli politici all’approvazione della norma. Questa lacuna ha creato un’area grigia che ha reso difficile la regolamentazione del settore.

Come si può sostenere la filiera della canapa senza menzionare i due prodotti che rappresentano il cuore del mercato globale della canapa industriale?“, ha chiesto Marola. Secondo lui, senza il commercio del fiore e degli estratti, la filiera non avrebbe mai potuto svilupparsi pienamente, né attrarre investimenti significativi.

La nascita di EasyJoint e l’espansione del settore

Marola ha poi spiegato come sia nata EasyJoint, la prima azienda italiana a commercializzare il fiore di canapa non psicoattivo, sfruttando la mancata regolamentazione per lanciare un prodotto destinato a un mercato in forte crescita. Ha difeso la sua iniziativa, definendola non solo un progetto imprenditoriale, ma anche un tentativo di sollecitare il legislatore a colmare il vuoto normativo.

L’impatto economico del settore è stato significativo: secondo dati certificati da Coldiretti, oggi in Italia si contano circa 4.000 ettari coltivati a canapa, 3.000 imprese agricole coinvolte e oltre 1.000 negozi specializzati, con un fatturato complessivo di 500 milioni di euro l’anno. Di questi, 150 milioni sono versati allo Stato sotto forma di tasse, e circa 13.000 posti di lavoro sono stati creati grazie alla cannabis light. “Ne vado assolutamente orgoglioso“, ha affermato Marola.

Il paradosso del processo di Parma

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Marola ha evidenziato come Parma sia l’unica città italiana in cui un grossista di cannabis light si trovi a subire un processo penale di questa portata, mentre in tutto il resto del Paese negozi e distributori automatici continuano a vendere prodotti analoghi senza conseguenze legali. Ha poi criticato l’interpretazione della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, che nel 2019 non ha chiarito definitivamente la legalità della vendita delle infiorescenze, lasciando ai giudici il compito di valutare caso per caso se un prodotto abbia o meno “efficacia drogante”.

Noi sappiamo che la mia canapa non ha effetti droganti: l’hanno dichiarato i miei clienti in aula e i test di laboratorio lo confermano“, ha affermato. Inoltre, ha citato l’analisi del magistrato Riccardo De Vito nella rubrica di Fuoriluogo del 31 luglio 2019, il quale ha definito la sentenza della Cassazione “ambigua” e incapace di fornire certezze interpretative.

Un attacco all’attivismo politico?

Nel corso della sua dichiarazione, Marola ha anche denunciato quella che considera una persecuzione politica nei suoi confronti. Ha rivendicato il suo ruolo di attivista per i diritti civili, ricordando il suo impegno per la legalizzazione della cannabis, per i diritti dei detenuti e per le unioni civili. “La mia storia è segnata dall’attivismo, e non posso accettare che venga distorta per speculazioni processuali”, ha affermato con fermezza.

Le conseguenze del processo

Infine, Marola ha ricordato le gravi conseguenze economiche e personali del processo: la distruzione del suo magazzino del valore di oltre 2 milioni di euro, la chiusura forzata della sua azienda e il peso psicologico di sei anni di battaglie legali. “Un trattamento così vessatorio non ha eguali nella storia giudiziaria della cannabis light”, ha dichiarato.

Concludendo il suo intervento, Marola ha chiesto alla giudice di considerare l’impatto della sentenza non solo su di lui, ma sull’intero settore della canapa light in Italia. “Sta a voi decidere se questa sia una storia criminale o la storia di un settore produttivo che chiede solo regole chiare”, ha affermato.

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La sentenza del processo di Parma, attesa nei prossimi mesi, potrebbe avere ripercussioni importanti per il futuro della cannabis light in Italia, chiarendo – almeno sino all’eventuale approvazione del DdL Sicurezza – i confini della legalità per questo settore in continua espansione.





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