L’America di Trump, capitale delle criptovalute

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Pochi giorni dopo l’insediamento, Trump ha emesso la sua criptovaluta. Poi ha emanato un ordine esecutivo per fare degli Usa la capitale mondiale degli asset digitali. La posta in gioco è chiara: il carattere di bene pubblico della moneta.

Le criptovalute secondo il presidente

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Il 23 gennaio 2025, solo tre giorni dopo la cerimonia di inaugurazione a Capitol Hill, il nuovo presidente degli Stati Uniti ha emanato un ordine esecutivo per “rafforzare la leadership americana nelle tecnologie digitali finanziarie”. Si tratta di un provvedimento volto a fare degli Usa la capitale mondiale delle cripto, secondo quanto promesso da Donald Trump in campagna elettorale.

Quantomeno nella visione del presidente, quello dei criptoasset non è un settore marginale. Come spiega la premessa del provvedimento, “l’industria degli asset digitali gioca un ruolo cruciale nell’innovazione e nello sviluppo economico degli Stati Uniti, nonché per la leadership internazionale della nostra nazione”. In un crescendo, Trump fa dipendere dalle sorti delle cripto non soltanto l’innovazione, ma anche la crescita e la competitività dell’economia americana e addirittura la capacità degli Usa di esercitare l’egemonia su scala globale.

Solo pochi anni fa, nel 2021, Trump aveva dichiarato che il bitcoin era “una truffa”, additandolo come un possibile concorrente del dollaro. Poi l’inversione a U: sotto l’influenza di giovani repubblicani, primo fra tutti il suo vicepresidente, J.D. Vance, “The Donald” ha sposato, per convinzione e convenienza (spesso indistinguibili per lui), l’ideologia ultraliberista che punta alla completa privatizzazione del sistema monetario a favore dell’oligarchia delle big tech, promettendo la deregolamentazione del mercato dei criptoasset.

Il nuovo ordine esecutivo punta a mettere in atto il nuovo approccio in brevissimo tempo. È stato perciò costituito un gruppo di lavoro, composto dai rappresentanti di tutti i principali ministeri e agenzie pubbliche (dal Tesoro alla sicurezza nazionale), incaricato di stilare entro 180 giorni una nuova normativa in materia, con lo scopo di liberalizzare le attività di coniazione, custodia e scambio dei criptoasset, difendere la sovranità monetaria Usa anche promuovendo la creazione di stablecoin ancorati al dollaro, contrastare l’uso di monete digitali di banche centrali estere. Addirittura, si valuta la possibilità che lo stato federale costituisca riserve strategiche in bitcoin.

Anche sul fronte delle cripto, la principale preoccupazione di Trump sembra essere di stampo mercantilistico: l’obiettivo è attrarre negli Stati Uniti flussi di liquidità che altrimenti andrebbero altrove. È la strategia adottata dal Salvador, che era arrivato perfino a dichiarare bitcoin valuta legale – salvo poi fare retromarcia. Ora, non sembra incoraggiante per la stabilità del sistema monetario internazionale se il centro si riduce a emulare le strategie di un paese periferico.

Deregolamentazione e conflitti di interesse

L’obiettivo della deregolamentazione, come spiega il Financial Times, è chiaro: facilitare l’acquisizione di criptoasset da parte degli intermediari tradizionali e i fondi pensione. C’è da augurarsi che l’apertura sia accompagnata da adeguate misure prudenziali, visto che gli investimenti in criptovalute hanno già giocato un ruolo nel fallimento di alcune banche, da Silvergate a Silicon Valley Bank (come suggerito da un rapporto del Congresso e suffragato da un recente studio apparso sull’Internationl Review of Financial Analysis). Non c’è però da fare molto affidamento sul fatto che le nuove regole in materia siano dettate dalla necessità di tutelare quel bene pubblico che è la stabilità finanziaria, considerato il conflitto di interessi in cui Trump si trova per via delle sue numerose attività imprenditoriali nel settore (da World Liberty Financial alla neonata Truth.fi).

Peraltro, il presidente non è il solo ad avere un conflitto d’interessi su questo fronte: numerose posizioni chiave della nuova amministrazione sono state affidate ai suoi nuovi amici, strenui fautori delle criptovalute, da Paul Atkins, nominato alla guida della Sec, a David Sacks, incoronato “zar delle cripto”. Molti di loro, fra cui il vicepresidente Vance, sono affiliati alla “Paypal Mafia”, ossia sono accomunati da un legame con la società fondata da Pieter Thiel e Elon Musk che, prima di decollare come sistema di pagamento, nutriva ambizioni ancora più radicali, di privatizzazione della creazione monetaria (come messo in luce Roberto Petrini su Avvenire).

Conto e carta

difficile da pignorare

 

L’emissione della cripto $Trump lo conferma. Si tratta di un “meme token”, un tipo di criptoasset cui non è associato alcun valore intrinseco o diritto, ma esprime soltanto supporto per il presidente Usa. Come se fosse una forma di propaganda, di merchandising digitale, la versione virtuale del cappellino rosso. Non c’è da sorprendersi: Trump ha usato il proprio marchio per vendere di tutto, comprese le bistecche. Ma che continui a farlo da presidente eletto e poi insediato è segno della sua tendenza a confondere incarichi pubblici e affari privati. È già piuttosto irrituale che abbia fatto leva sull’esposizione mediatica offerta dall’inaugurazione per lanciare un’iniziativa imprenditoriale con fini di lucro per sé e per la propria famiglia. Ma quel che è ben più grave è che l’anonimato che caratterizza le criptovalute potrebbe consentire, di fatto, a Trump di raccogliere denaro dai suoi sostenitori in violazione delle rigide norme che negli Stati Uniti regolano i finanziamenti delle lobby, come ha denunciato Larry Noble, già consigliere generale della Commissione elettorale federale. E non è nemmeno incoraggiante per la sua idea di cripto il fatto che abbia emesso la forma più volatile e puramente speculativa.

Tuttavia, aldilà degli aspetti che possono apparire più folcloristici, la posta in gioco è chiara: il carattere di bene pubblico della moneta. Non a caso, lo stesso ordine esecutivo del 23 gennaio mette al bando il dollaro digitale, laddove la creazione di una Cbdc è vista dalla Banca centrale europea come strumento per la tutela della sovranità monetaria. Forse, aveva ragione il primo Trump a pensare che le criptovalute potessero essere il peggiore nemico del dollaro.

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Luca Fantacci



Luca Fantacci, docente di economia politica e di storia economica all’Università degli Studi di Milano. Co-autore, assieme a Massimo Amato, di The End of Finance (Polity 2011); Saving the Market from Capitalism (Polity 2014); A Fistful of Bitcoin (BUP 2020). Autore di una monografia sulla storia della moneta e del pensiero del denaro: La moneta. Storia di un’istituzione mancata (Marsilio 2005). Studioso del pensiero di Keynes e curatore di due raccolte di suoi scritti: Risparmio e investimento (Donzelli 2010) e Moneta internazionale (Il Saggiatore 2016).

Lucio Gobbi

paliotta

Ricercatore di Economia all’Università di Trento. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Trento. La sua ricerca si concentra su Macroeconomia e Network finanziari.

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