sullo stile personale, body image e abiti

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Personal stylist, autrice della newsletter FUORI MODA e appassionata del rapporto tra moda, filosofia e psicologia, Silvia Fanella è la prima delle nostre Grazia Factory Voices, uno spazio aperto alla discussione e alle opinioni personali

Lo confesso. Ogni volta che termino di ascoltare l’ultimo episodio di Fashion Neurosis, il podcast di Bella Freud (designer e pronipote di Sigmund Freud – ndr), mi chiedo perché quell’idea di format non sia venuta prima a me. Il mio Super Io particolarmente ostile e severo mi ricorda però subito di non arrabbiarmi più di tanto: il mio cognome non è come quello del padre della psicoanalisi, anzi, appartiene a quelle zone tra il Lazio e la Campania denominata “Ciociaria” e mentre la pronipote di Sigmund Freud da bambina giocava nei salotti di Londra, io al massimo potevo rincorrere qualche cane randagio di Velletri.

Se anche volessimo mettere a bada la mia voce più coscienziosa, è pur certo che la mia vita professionale al momento somiglia molto di più a una sorta di Bridget Jones moderna che cerca di inventarsi uno spazio nel mondo, rispetto a quella di una ragazza molto cool che fa cose molto cool e con un albero genealogico altrettanto… beh, ecco, cool.

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Ritorno presto in me, e apro la mia casella postale. Una ragazza mi ha contattata perché vuole essere aiutata a trovare il proprio stile. Lo stile personale rientra nella sfera dell’intangibilità di ciò che un essere umano riconosce e identifica come familiare per associazioni non strettamente legate alla vita conscia. Spesso, infatti, per rispondere alla questione su come trovare il proprio stile in fatto di abbigliamento si consiglia di sollecitare la propria curiosità culturale: viaggiare, leggere e guardare film, ad esempio. Queste esperienze, tuttavia, dovrebbero essere fondamentali anche e soprattutto per creare delle memorie e delle assonanze con la propria storia e per coltivare la propria vita psichica formata da immagini. Ecco che allora riconoscere e identificare i propri archetipi può aiutare anche a definire il nostro senso del gusto e dello stile.

Se prendiamo per buona questa mia concezione della ricerca e del possibile raggiungimento di quello che possiamo definire “stile personale”, capirete bene che la mia figura professionale deve restare al margine di questo viaggio sensoriale. Anzi, mi correggo, dovrebbe fare da mediatrice restando nel limbo.

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“The Scarlet Letter”, Hugh Thomson

Quello che davvero conta farvi sapere di me è che ho ben presto capito che non solo l’abito fa il monaco, ma è anche impensabile pensare di separarli: entrambi ci parlano come se fossero un’unica voce.

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C’è stato un momento particolare in cui ho preso consapevolezza di questa mia opinione. Mi trovo costretta a fare un salto indietro nel tempo e a ritornare a quando avevo circa nove anni. In quel periodo tutte le figure femminili intorno a me mi parlavano di quel fantomatico momento in cui le bambine diventano grandi e del prendere coscienza che il mio corpo stesse già iniziando ad andare verso quella direzione. Addirittura la cuoca della mensa mi porgeva il piatto di pasta riscaldata guardandomi e affermando: «Sembri proprio una ragazza grande, Silvia!».

E così nel bel mezzo di una lezione di italiano, in una qualsiasi mattinata trascorsa a frequentare la terza elementare, diventai grande. Nei giorni seguenti mi accorsi di come effettivamente le felpe e i maglioncini con gli orsacchiotti, indossati fieramente fino a quel momento, iniziavano ad andare stretti, e non intendo solo fisicamente. È vero, il mio corpo era cresciuto in così poco tempo ma anche la percezione che io avevo di me stessa era talmente cambiata che non potevo più accettare di indossare abiti troppo fanciulleschi. Ormai mi riconoscevo come “ragazza grande” e volevo essere vista e identificata come tale, e per farlo dovetti iniziare a sostituire la maggior parte del mio armadio, per la poca gioia di mia madre.

Capii ben presto che gli abiti viaggiano con noi, ci accompagnano nelle varie fasi della nostra vita e ci aiutano ad affermarci nel mondo. Inoltre, fu la prima volta in cui mi approcciai alla mia immagine corporea.

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“Fashion In Paris”, François Courboin

Nel 1935 lo psichiatra e psicoanalista austriaco Paul Schilder, allievo del già citato maestro Sigmund Freud, conia ufficialmente il termine “Body Image” inteso come l’immagine del proprio corpo nella propria mente, come il nostro corpo appare a noi stessi. Durante il processo di elaborazione, accettazione e appropriazione del nostro corpo, ci potremmo imbattere in quelle che sono le nostre memorie corporee che ci permettono di costruire l’immagine di quello che rappresentano per noi. Diventa così un prodotto che prende vita e muta anche attraverso le nostre esperienze, i contesti sociali in cui abita, i fattori emotivi che lo coinvolgono e come viene percepito da noi stessi e dal mondo esterno. Questo corpo, inoltre, deve essere presentato, coperto e vestito ogni mattina: un’azione che per molte persone non è nulla di più di un semplice automatismo.

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Aprire il nostro armadio e scegliere cosa indossare è un’azione che interessa tutti, ma ognuno lo fa a modo proprio. C’è chi lo riveste di un significato più profondo e chi, invece, lo fa per pura funzionalità. Quando ne riconosci il potere o scegli di giocare o deliberatamente decidi di non sottostare ai suoi vizi e virtù edonistici. Scelsi la prima opzione e, dal trovarmi costretta a scegliere abiti nuovi per la ragazza-bambina che ero diventata, finii con l’innamorarmi perdutamente della sensazione di puro piacere che mi dava indossare ciò che ritenessi bello.

Iniziare a esplorare il mio senso dell’estetica e del gusto attraverso scarpe e accessori mi avvicinava sempre di più alla natura del mio istinto che mi permetteva di vestirmi in totale autonomia senza più l’aiuto di mia madre. Il lasciar fare senza regole o divieti mi aiutava ad avere fiducia in me stessa e nelle mie scelte stilistiche d’impulso. Era il mio istinto che mi guidava a fare gli abbinamenti e lo è tutt’ora quando vesto le mie clienti. È sempre stata una questione di intuito, solo che ora ho vissuto un po’ di più nel mondo.

Se volessimo insistere sulla questione legata alla ricerca del proprio stile personale o sulla fantasmagorica scienza del “saper vestire bene”, aggiungerei la possibilità di esercitare il nostro istinto primordiale, esattamente come quando un bambino sceglie di colorare tutto col suo colore preferito. Non esiste sempre una risposta logica dietro alle nostre preferenze, ma le nostre scelte parlano certamente di noi. Per questo motivo, dovremo affidarci un po’ di più alle nostre sensazioni, correndo il rischio di rendersi poi conto che il risultato non era come ce lo si aspettava.

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Miuccia Prada e Raf Simons con la collezione FW 2025/26 “Unbroken Instinct” hanno voluto raccontare di quanto l’atto di vestirsi sia un gesto impulsivo che non dovrebbe seguire delle leggi scritte, in considerazione del fatto che nessuno, tantomeno la Signora Prada, probabilmente abbia mai letto un manuale sugli abbinamenti. Quello che sicuramente ha fatto Miuccia è stato aver letto molto, aver visto dei film e studiato determinate questioni le cui esperienze e riflessioni suscitate, hanno aiutato a definire il suo gusto.

Per quanto questo possa risultare liberatorio per qualcuno, per qualcun altro potrebbe sembrare poco consolatorio: le possibilità di abbigliarsi sono pressoché infinite e sono legate al nostro inconscio col quale dobbiamo confrontarci, lasciandoci trasportare. Forse da una persona che fa questo di mestiere, ci si aspetta una formula magica ripetuta a menadito. Sicuramente possono esserci dei suggerimenti da adottare o per i quali prestare maggiormente attenzione, ma sentitevi libere e liberi di sperimentare con i vostri abiti, pur commettendo qualvolta delle bruttezze: sono necessarie e fanno parte del percorso. Matilde Serao già nel lontano 1911 scriveva: «(…) ne vedremo delle stravaganze e delle bruttezze: ma vedremo, anche, delle creazioni uniche» e trovo questa libertà di espressione non legata alla pratica di abbellimento forzato estremamente contemporanea.

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“Crear Se Stessa” Aa. Vv. – Rina Edizioni

Sto leggendo Crear se stessa, un libro che raccoglie le testimonianze in fatto di moda di scrittrici e giornaliste intellettuali italiane dei secoli passati. Mi si è palesato in una vetrina di una piccola libreria a Brera, mentre passeggiavo alla ricerca di segnali e nuove ispirazioni per riuscire a raccontare meglio il mio lavoro e farlo arrivare a più persone possibili.

Forse, il nostro stile personale nasce dalla nostra vita intima e dalle nostre esperienze interiori e sensoriali che compiamo nel mondo. La moda non può e non deve essere solo da indossare ma deve saper raccontare la nostra autenticità e il modo in cui ci relazioniamo anche alla nostra sfera emotiva e psichica.

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In fondo, anche lasciare tracce di noi, è una questione di istinto.



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