GIUSTIZIA, grane internazionali e imbarazzi politici. Il Caso al-Masri e i difetti del sistema

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Uno scontro, quello tra magistratura e politica, che ha luogo in una fase oltremodo delicata nella quale il clima viene reso incandescente dalla riforma della Giustizia, inclusiva della separazione delle carriere da requirenti e giudicanti, che l’esecutivo di destra attualmente in carica sta varando.

SI FA …MA NON SI DICE

Allora il caso al-Masri è una vicenda del tutto politica, erroneamente infilatasi in una giudiziaria, oppure sono fondate le accuse mosse ai vertici del Governo Meloni? E inoltre, quest’ultimo (ovviamente nei suoi esponenti apicali sui quali ricadeva la competenza delle decisioni) si è fatta sfuggire per imperizia o timore la vicenda dalle mani? Dunque un pasticcio di insipienza, secondo non pochi osservatori. A questo punto è divenuto inevitabile che si evidenziassero con maggiore nitidezza i profili, tanto evanescenti quanto però immaginabili, delle zone grigie di una serie di accordi stipulati con clan, bande e milizie libiche. Lo Stato, qualsiasi stato, gioca sia a carte scoperte che a carte scoperte. È una verità di Pulcinella che tuttavia è difficile da rivelare con assertività, per mille ragioni di opportunità che si possono immaginare.

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Ma da Palazzo Chigi non è stata però invocata nessuna “ragione di stato” a copertura della controversa dinamica del rimpatrio del potente personaggio libico accusato di gravissimi reati dal Tribunale penale internazionale. Ad avviso dell’avvocato Roberto De Vita le responsabilità sul caso al-Masri andrebbero ascritte a entrambe le parti in causa, sia al Governo che alla Magistratura. «È necessario prendere le mosse da un presupposto onde evitare una sovrapposizione tra le due dimensioni, politica e giudiziaria: lo stato di diritto contempla interventi come quelli “comandati” dai Codici alla polizia giudiziaria, e questi sono “atti dovuti”. Quindi, nel caso di specie, la Digos di Torino, una volta identificato un soggetto gravato da una red notice, cioè l’internazionalizzazione mediante il canale Interpol del mandato d’arresto da parte della Corte penale internazionale, correttamente ha eseguito l’arresto».

ATTO DOVUTO O ATTO VOLUTO?

«Non avrebbe potuto fare altrimenti – prosegue De Vita -, e questo in tutta la vicenda è l’unico atto veramente dovuto. A quel punto la Digos ha informato, come doveva, il ministro e la Procura Generale presso la Corte di Appello e la Corte di Appello di Roma. Qui ha preso avvio una fase anticipatoria dell’interlocuzione con il ministro della Giustizia, relativa alla necessità di assicurare, a fini eventuali di consegna ai fini dell’estradizione dell’arrestato, è l’arresto provvisorio, che ha una sua scadenza temporale, con la La Corte di Appello che ha dieci giorni di tempo per decidere su questo arresto. Si tratta di una fase che rientra esclusivamente in un dialogo diretto tra la polizia giudiziaria che opera l’arresto provvisorio e la Corte d’Appello». Il principio alla base di questa procedura è quello della sicurezza, cioè che la persona accusata di reati non faccia perdere le sue tracce.

IL SALE SULLA CODA

Dunque, sulla base di questa argomentazione la Corte di Appello avrebbe potuto e dovuto arrestare provvisoriamente al-Masri, a prescindere da come si sarebbe poi espresso il ministro Carlo Nordio. «L’arresto provvisorio – specifica De Vita – è una misura pre-cautelare che serve proprio a mettere in moto quel meccanismo che in seguito consentirà al ministro le interlocuzioni anche con la Corte penale internazionale. Il ragionamento alla base fonda su di una banale logica: normalmente, i mandati di arresto sono a carico di soggetti rispetto ai quali non si sa, nel momento in cui vengono emessi, dove queste persone esattamente si trovino. Tanto è vero che la Camera Preliminare della Corte penale internazionale lo aveva emesso e diramato su sei stati. Dunque, nel momento della sua identificazione (al-Masri, n.d.r.), se non fosse stato tratto in arresto sarebbe scappato».

DOVE HA SBAGLIATO IL GOVERNO

Se al-Masri fosse stato trattenuto in arresto provvisorio «nei dieci giorni il ministro della Giustizia sarebbe potuto intervenire con una propria richiesta in relazione alla richiesta di consegna pervenuta dalla Corte penale internazionale. La Corte d’Appello avrebbe dovuto convalidare l’arresto – argomenta al riguardo De Vita -, consentendo così nei dieci giorni le valutazioni e le responsabilizzazioni da parte del Governo, anche nelle interlocuzioni con la Corte penale internazionale, e conseguentemente rendere possibile, nell’ambito dei rapporti noti anche con altri organi parlamentari, l’addivenire a una decisione. Si sarebbe trattato di una decisione importante che avrebbe responsabilizzato l’Esecutivo dal punto di vista politico, sottoponendola tuttavia anche a dei meccanismi di confronto. Invece, l’immediata liberazione, addirittura attribuendo l’irritualità e la scorrettezza dell’operato alla polizia giudiziaria, di fatto, ha posto il Governo nelle condizioni di poter affermare che era stata la Corte d’Appello a metterlo di fronte al fatto compiuto e che, semmai, si sarebbe dovuto ragionare sull’aspetto relativo all’espulsione successiva».

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