di Maria Paola Pasini*
«Brescia, ottant’anni fa era, una città in guerra proprio come Gaza City o Mariupol o Kinshasa e come molte altre città i cui nomi forse non ci sono altrettanto familiari»
La mostra «Brescia Ferita 1944-1945» vuole essere un piccolo segno per ricordare una grande tragedia. Brescia, ottant’anni fa era, una città in guerra proprio come Gaza City o Mariupol o Kinshasa e come molte altre città i cui nomi forse non ci sono altrettanto familiari. E mentre oggi la guerra è tornata protagonista in Europa e in aree vicine, è sembrato giusto proporre questa iniziativa come impegno non solo scientifico ma anche civile.
Lo storico Giovanni De Luna sottolinea, nel suo libro del 2010 La Repubblica del dolore, quanto sia importante per una comunità rafforzare il patto fondativo della memoria che proviene anche dalla condivisione del dolore e del lutto. Questo non si fa ignorando o rimuovendo quanto accaduto ma mantenendo con forza il pensiero su chi ci ha preceduto. Nella ricerca il mio contributo alla mostra si è orientato soprattutto sull’analisi delle vicende delle opere mobili. La professoressa Carlotta Coccoli si è invece concentrata sulle sorti del patrimonio monumentale — in particolare quello ecclesiastico — che ha subìto gravi danni e distruzioni durante la Seconda guerra mondiale: dalla cupola del Duomo alla chiesa di San Marco, da Santa Maria dei Miracoli a Sant’Anfra. La sorte dei capolavori trasportabili è stata certamente più fortunata rispetto agli edifici monumentali.
Salvare l’arte bresciana fu una grande operazione di «protezione civile» che seppe preservare intatti o quasi (qualche danno derivò dagli spostamenti) tanti quadri, tante sculture, tante collezioni, i documenti più rilevanti dell’archivio storico che costituivano il patrimonio artistico ma soprattutto identitario della città. Centinaia di pezzi provenienti da chiese, santuari, musei furono imballati e portati in luoghi sicuri come villa Fenaroli a Seniga. Le chiese, le immagini sacre, le statue della Madonna rappresentavano la consolazione per i bresciani in quei tragici momenti. Gli ultimi due anni di guerra furono terribili. In quei giorni la paura era la compagna quotidiana dei cittadini che dovevano continuamente, al suono degli allarmi, correre per cercare riparo nei bunker. Nella mostra, che riproduce immagini e documenti, abbiamo voluto inserire anche una piccola storia, quella di Carmela, una ragazzina di 15 anni che viveva in piazza Mercato. Ci ha lasciato il suo quaderno nel quale nel 1942, due anni prima di morire, scriveva la sua esperienza di paura al suono della sirena. Morirà, il 13 luglio 1944, nel bombardamento più grave per la città che fece duecento vittime: la giornata più sanguinosa della Brescia del Novecento. Un avvenimento che forse meriterebbe di essere ricordato in maniera più ampia e convinta. Primo Levi scriveva: «Non c’è futuro senza memoria». A Gavardo, ad esempio, iniziative che coinvolgono la scuola e l’intera comunità da molti anni fanno memoria del tragico bombardamento del 29 gennaio 1945.
«Brescia Ferita» vuole prima di tutto rendere omaggio a chi in quella terribile congiuntura ha perso la vita o ha visto la sua esistenza segnata per sempre. Ottant’anni fa. Pochi? Tanti? Dipende. La storia è prima di tutto il ricordo che chi non c’è più lascia nelle donne e negli uomini che restano. A patto che questi non perdano la memoria.
*curatrice della mostra con Carlotta Coccoli
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