Trump scarica su Biden la colpa del disastro aereo. E tira dritto su Guantanamo

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Il presidente tira in ballo i programmi per la diversità per l’incidente a Washington. E sui centri per migranti nella base il governo si muove in una zona grigia della legge

L’indicazione di Donald Trump di usare la base militare di Guantanamo come centro di detenzione per clandestini che hanno commesso reati o sono considerati pericolosi ha messo in allarme il mondo delle organizzazioni umanitarie: il timore è che la struttura, già chiamata da Amnesty International un «gulag dei nostri tempi», diventi un enorme campo di concentramento extraterritoriale e sottoposto al potere arbitrario dell’esercito, al riparo da garanzie legali e convenzioni internazionali.

Il Center for Constitutional Rights, che si è occupato dell’assistenza legale di molti detenuti di Guantanamo, ha scritto in una nota: «I migranti e i richiedenti asilo sono presentati come la nuova minaccia terroristica, meritevoli di essere scaricati in una prigione su un’isola, lontani dai servizi sociali e legali».

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Trump ha detto che il governo ha «30mila letti a Guantanamo per custodire i peggiori criminali clandestini che minacciano il popolo americano, alcuni di questi sono così cattivi che non ci fidiamo che i loro paesi d’origine li detengano».

Guantanamo, ha detto Trump, è un «posto da cui è difficile uscire», e dunque ha dato mandato al Pentagono con un memorandum di raddoppiare immediatamente la capienza della struttura.

La base di Guantanamo oggi è tristemente nota soprattutto per il carcere speciale costruito dall’amministrazione di George W. Bush per custodire e processare, con le corti militari, terroristi o presunti tali catturati nell’ambito della Guerra al terrore dopo l’11 settembre 2001, evitando così di ricorrere alla giustizia ordinaria.

La decisione di Trump, tuttavia, non c’entra nulla con il carcere. Si riferisce invece a un centro di permanenza per migranti che sorge sulla sponda opposta della baia di Guantanamo rispetto alla prigione, ed è stato costruito molto prima. Negli ultimi decenni tutta l’attenzione dell’opinione pubblica è stata rivolta lì, ma un manipolo di associazioni per la tutela di migranti e rifugiati ha continuato a denunciare le condizioni di scarsa (o nulla) tutela dei centri di detenzione, strutture che le varie amministrazioni hanno riempito o svuotato a seconda delle esigenze del momento.

Centri di detenzione

Il governo americano per molti decenni ha usato i centri della baia per trattenere rifugiati arrivati da Cuba, richiedenti asilo, rifugiati in attesa di visto, migranti di vari stati delle zone caraibiche recuperati dalla guardia costiera attorno alla base militare che gli Stati Uniti controllano dal 1898.

L’amministrazione di Bush padre aveva ordinato di non usare la base per il riconoscimento e la detenzione temporanea dei rifugiati che fuggivano da Haiti, ma, quando a metà degli anni Novanta il flusso di persone che lasciava il paese ormai al collasso è diventato impossibile da gestire, Bill Clinton ha ordinato che si ritornasse a usare la base come centro di raccolta. Nel 1994 le strutture dei migranti nella base ospitavano 45mila persone.

La situazione è andata avanti per decenni. Lo scorso anno un rapporto dell’International Refugee Assistance Project ha documentato che rifugiati e migranti provenienti da Cuba e altri paesi dei Caraibi, per lo più recuperati in mare dagli americani, sono «detenuti in condizioni simili a quelle di una prigione, senza accesso al mondo esterno».

E soprattutto senza un chiaro status legale, che è esattamente la ragione per cui è stato originariamente creato il Migrant Operations Center che Trump ora vuole ripopolare. Il segretario del Pentagono, Pete Hegseth, ha confermato che il piano sta andando avanti e al centro nella base verranno portati «clandestini che hanno commesso crimini violenti».

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Questo provvedimento trumpiano si muove dunque nel solco di una lunga storia di detenzione di migranti, e ha una caratteristica in comune con altri che l’amministrazione sta emettendo in questi giorni febbrili: non si rifà ad alcuna legge, ma agisce in una zona grigia dove la Casa Bianca cerca spazio per implementare le sue politiche.

Incidente aereo

Il Pentagono è anche impegnato nelle indagini sul catastrofico scontro aereo di mercoledì sera fra un elicottero militare e un volo di linea in procinto di atterrare all’aeroporto Ronald Reagan di Washington. I 64 passeggeri del volo e i tre militari sul Black Hawk sono morti.

A caldo Trump ha reagito al «terribile incidente» scrivendo su Truth che si tratta di una «brutta situazione che doveva essere evitata» e chiedendosi come mai l’elicottero non si è mosso «su o giù» per evitare l’aereo che era in una «rotta perfetta per arrivare all’aeroporto». In mattinata ha poi usato toni leggermente più diplomatici, salvo poi spiegare dalla sala stampa della Casa Bianca che «non sappiamo cosa è successo, ma abbiamo idee e opinioni molto forti».

Senza mostrare prove o conclusioni certe, ma solo affidandosi al suo «senso comune», il presidente ha chiaramente voluto scaricare le responsabilità sul controllo aereo, e ne ha approfittato per criticare le politiche di assunzione dell’amministrazione Biden, battendo sul solito tasto dei programmi per la diversità (Dei), che avrebbero impedito di avere i migliori professionisti a disposizione.

«La colpa è delle assunzioni per quote?», ha chiesto un cronista. «Potrebbe essere», ha risposto. Trump ha lasciato la parola al segretario dei Trasporti, Sean Duffy, a quello della Difesa Hegseth e al vicepresidente, J.D. Vance, che hanno declamato variazioni sul tema dell’elogio della leadership presidenziale.

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