Regioni ad autonomia differenziata: una storia infinita

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L’autonomia differenziata non è altro che il riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e di materie di competenza esclusiva dello Stato.
Una superficiale informazione parla di “folle proposito di riforma del Governo Meloni”. Occorre precisare che il governo di centrodestra vuole “attuare” la riforma del Titolo V della Costituzione, riforma che, ideata e pensata sinceramente per poter dare una risposta definitiva alle istanze autonomiste di gran parte del Nord (ma anche di una parte consistente del Sud) ridisegnando la forma dello stato e depotenziando le rivendicazioni leghiste, fu approvata dal centrosinistra (Governo Amato), con legge costituzionale n. 3 del 2001, con pochissimi voti di maggioranza, legge poi sottoposta a referendum confermativo con una scarsa partecipazione, attestata al 34 per cento.
Sono trascorsi ventiquattroanni da quella approvazione e la riforma non ha ancora visto la sua attuazione. Va ricordato che nel 2018 le tre regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna inoltrarono richiesta di nuovi compiti, richiesta sfociata poi in una intesa tra Governo e regioni. Successivamente altre regioni, pur non avendo firmato alcuna pre-intesa con il Governo, espressero la volontà di intraprendere un precorso per l’ottenimento di ulteriori forme di autonomia (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania).
Il paradosso è che oggi la sinistra che votò la riforma – forse consapevole dei probabili effetti negativi che può determinare nell’aumentar le differenze tra chi nasce e vive al Nord oppure al Sud – spera e desidera che la riforma non si applichi mai, e la destra, che non votò la riforma, è ultrà dell’autonomia soprattutto attraverso le regioni Lombardia e Veneto scalpitanti per ottenere compiti e funzioni di carattere statale.
Sulla base del programma elettorale del centrodestra nel quale è sancito l’impegno per attuare il Titolo V della Costituzione, lo scorso anno è stata approvata dal Parlamento la legge n. 86 recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
Non sono immediatamente mancate forte critiche da parte dell’opposizione. I modi in cui questa autonomia può attuarsi, tuttavia, sono molti, e quello scelto dalla destra è stato criticato e contestato soprattutto da studiosi, dall’opposizione e da molti rappresentanti locali delle regioni del Sud.
Dopo la pubblicazione della legge 86, sono state presentate alcune richieste di referendum abrogativo, ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione. Una di queste richieste, finalizzata alla raccolta delle 500 mila firme necessarie per attivare il procedimento referendario riguarda l’abrogazione totale della legge sull’autonomia differenziata. Anche alcuni consigli regionali, a maggioranza di centrosinistra, Campania, Emilia-Romagna, Sardegna e Puglia hanno deliberato in ordine alla richiesta di referendum abrogativo. Le due iniziative referendarie, di origine rispettivamente popolare e regionale, concernenti l’abrogazione totale della legge 86 sono state unificate in quanto relative a identico quesito.
La corte costituzionale è intervenuta sulla legge con la sentenza n. 192 del 2024. La Consulta, considerando non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge, ha ritenuto invece illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo rendendo così inapplicabile la legge.
In data 20 gennaio u.s. la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile il quesito referendario riguardante l’abrogazione totale della legge 86, e in particolare la Corte “ha rilevato che l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari pregiudicando la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettorato. Il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata, come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, della Costituzione; il che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale”.
Alla luce delle decisioni della Consulta possiamo dire che per dare corso a quanto previsto dal Titolo Quinto della Costituzione è necessaria produrre una legge che, comunque, non può essere completamente abrogata e che l’attuale legge deve essere modificata dal Parlamento superando tutte quelle incostituzionalità e criticità individuate dalla Consulta stessa.
Davanti all’intenzione della destra di adeguare o rinnovare la legge 86/2024 diventa attuale l’atteggiamento che deve assumere l’opposizione parlamentare: può tranquillamente e pregiudizialmente essere contraria a qualsiasi ipotesi (ed eventualmente promuovere un altro referendum abrogativo) oppure cercare di introdursi nel processo di formulazione legislativa con la presunzione di migliorarla oppure di contenere i guasti che potrebbe recare accentuando i divari tra i cittadini.
In ogni caso pare ormai necessario prendere atto degli errori e delle criticità del Titolo Quinto costituzionale e quindi l’esigenza di mettere mano alle sue modifichemodifiche soprattutto eliminando dalle materie trasferibili alle regioni tutte quelle che è bene rimangono di competenza dello Stato (ad esempio sanità ed istruzione) e questo dovrebbe diventare un impegno di un programma elettorale governativo del centro sinistra.
Infine un sogno: un programma elettorale del centro-sinistra che preveda una Assemblea costituente, elettain modo proporzionale, per dare spazio a tutte le sensibilità, capace di rivedere tutta la seconda parte della Costituzione e non solo il Titolo V, che riesami lo status di regioni a statuto speciale, che verifichi l’eccessivo numero di regioni, l’alto numero dei piccoli comuni oramai impossibilitati a dar risposte alle esigenze dei cittadini, al sistema bicamerale, alla scelta di addivenire a una repubblica presidenziale e di quale tipo orimanere repubblica parlamentare con elezione diretta o meno del presidente del consiglio dei ministri, del ripristino degli organi nelle province e nelle città metropolitane – anche queste da rivedere nel loro numero, ecc.

Franco Ecchia



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