«Indagarmi è un danno alla Nazione, da Lo Voi un atto voluto. I pm vogliono governare»

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Altro che atto «dovuto». È un «atto voluto» che fa «un danno alla Nazione». È durato un giorno il silenzio stampa, la prudenza che sembrava aver avuto la meglio dopo i primi colpi. Giorgia Meloni torna sul caso Almasri e si scaglia contro i pm che l’hanno messa sotto indagine per favoreggiamento e peculato. Tuona contro «quel pezzetto di magistratura» che, ne è convinta, vuole sfidare il governo per «governare» a sua volta, «ma allora si candidino: non si può fare che loro governino e io vado alle elezioni». Sono passate da poco le cinque del pomeriggio quando la presidente del Consiglio appare in videocollegamento all’evento “La ripartenza” organizzato da Nicola Porro. Doveva essere un saluto, l’occasione di rivendicare i numeri della “Melonomics”, la strategia del governo sui conti e la premier lo fa.

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Almasri, La Russa: «C’è scontro con chi ha presentato l’esposto». Li Gotti: «Non gli dedico un secondo»

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«Il mondo è tornato a puntare sull’Italia, sulle sue imprese, sulle loro capacita e sulle sue eccellenze» esordisce Meloni quasi sotto tono, in ore burrascose per il governo. Due ministri – Matteo Piantedosi e Carlo Nordio – e il sottosegretario Alfredo Mantovano hanno ricevuto come lei l’avviso di iscrizione nel registro di indagati da parte del procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi. «Distinti saluti». Le opposizioni disertano il Parlamento, indignate per la liberazione del “torturatore” libico Almasri, rispedito a casa su un aereo di Stato con buona pace del mandato di arresto della Corte penale dell’Aja. Il governo prepara le carte bollate.

Ma dura poco la prudenza. Incalzata da Porro, la premier torna su un caso che ha già fatto il giro del mondo. «Io penso che a chiunque nei miei panni cadrebbero le braccia», affonda Meloni. È un fiume in piena contro le toghe. Quell’indagine che sa di sfida e «la manda ai matti». E contro Lo Voi, il pm nell’occhio del ciclone. Un «atto voluto», l’avviso di garanzia spedito a Palazzo Chigi dopo la denuncia dell’avvocato Li Gotti, sostiene la timoniera di Palazzo Chigi. Infuriata contro quei magistrati, «per fortuna pochi», che «cercano di colpire chi non è politicamente schierato con loro». Parole che indignano le opposizioni, da giorni in pressing per chiedere al governo di riferire in Parlamento. Richiesta rigettata dalla premier e dai ministri indagati in nome del “segreto d’ufficio”.

«È evidente che Meloni alzi lo scontro coi giudici per non parlare del merito della questione: la scelta politica di riportare a casa un torturatore libico» parte a stretto giro la segretaria del Pd Elly Schlein. «Fa la vittima. È inaccettabile che chi governa usi il suo potere per deligittimarne un altro previsto in Costituzione». La segue Giuseppe Conte: «Meloni non sei sopra la legge. Sei in una democrazia. Ricomponiti» tuona il presidente del Movimento Cinque Stelle.

Meloni però tira dritto. Pronuncia un discorso di fuoco – che posta poi sui social network, a scanso di equivoci – a cui si è preparata nel primo pomeriggio a Palazzo Chigi. Parla di «danno d’immagine» riferendosi all’indagine romana finita in copertina sul Financial Times. Si rivolge agli elettori con un appello che sa di antipasto di una chiamata alle urne, magari per il referendum sulla separazione delle carriere di giudici e pm che è decisa a trasformare presto in realtà. «Non mollo finché gli italiani sono con me». Sciorina dati e numeri. Come le «73 ore di volo» che hanno scandito le sue trasferte all’estero solo a gennaio. «Qualcuno mi critica perché porto mia figlia con me quando parto, non capisco quando la dovrei vedere» continua la leader di Fratelli d’Italia calzando l’elmetto.

Qui e lì sembra smorzare i toni, ma è solo un momento. Ricorda in un inciso che «la magistratura svolge un ruolo fondamentale, è una colonna portante, ma nessun edificio si regge su una colonna una sola». Poi torna a scagliarsi contro quei togati che a suo dire «vogliono decidere politica industriale, ambientale, riformare giustizia, cosa spendere e cosa no». Altro che prudenza, silenzi e attese. Riecco le stoccate fra poteri dello Stato sotto lo sguardo vigile del Colle, che per ora osserva in silenzio. Discorso dai toni già elettorali, si diceva.

Un tuffo nel vocabolario berlusconiano anti-toghe, tra le righe le parole d’ordine del “Caimano”. «Non è normale, non è inevitabile che i governi li scelga il Palazzo e non il popolo, non è normale, non è inevitabile che alcuni magistrati politicizzati cerchino di colpire chi non è politicamente schierato con loro». Ieri tutto il governo, in verità, è tornato in trincea. A partire dal vicepremier Antonio Tajani che ritiene «bizzarro» come ogni atto del governo «debba essere sottoposto al giudizio della magistratura» e si rivolge anche lui al procuratore Lo Voi: quelle indagini «non fanno l’interesse della Nazione».

Discorsi che preoccupano la magistratura riunita nell’Anm: «Sono sorpreso e preoccupato per i violenti attacchi rivolti alla magistratura e al procuratore Lo Voi in queste ore» annota in serata il segretario generale Salvatore Casciaro. L’invettiva in diretta della premier poggia su una convinzione. E cioè, sostiene lei, che da quando è a Palazzo Chigi «il mondo sia tornato a puntare sull’Italia, sulle nostre imprese, capacità ed eccellenze, dal ghiaccio dei fiordi fino alla sabbia del deserto».

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Ecco, l’avviso di iscrizione nel registro degli indagati piombato sulla sua scrivania martedì pomeriggio rischia di incrinare quell’’immagine, prosegue la premier. «Si sente al di sopra della legge e continua a fuggire dalle proprie responsabilità, vada in aula a riferire» la incalza dai banchi delle minoranze il segretario di Più Europa Riccardo Magi. Nel pomeriggio la premier sente il cancelliere tedesco Olaf Scholz. La chiama lui per parlare di armi e spese Nato in vista del Consiglio europeo informale di lunedì. «Mi prendo solo qualche ora di pausa», scherza Meloni da Porro. Ma lo scontro con le toghe non va in soffitta.

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