Il concetto di resilienza applicato alle costruzioni
Dal latino resilire, il termine resilienza indica la capacità di un organismo di fronteggiare situazioni di stress estremo senza che le sue funzioni essenziali vengano danneggiate. La consuetudine vuole che questo concetto sia impiegato per definire una caratteristica tipica della psiche umana oppure la proprietà intrinseca di alcuni materiali di assorbire un urto senza frammentarsi, ma risulta interessante verificare quali siano le sue possibili declinazioni nel settore delle costruzioni.
Effettuando un parallelismo tra organismi e città, infatti, appare evidente come anche queste ultime abbiano la necessità di incrementare il proprio grado di resilienza per affrontare le difficoltà sempre più urgenti che caratterizzano il mondo odierno, tra cui spiccano i fenomeni di riscaldamento globale, l’incremento dell’emissione di agenti inquinanti, il consumo sempre più elevato di risorse, e molti altri fattori di stress esterno che mettono a repentaglio l’incolumità del nostro pianeta.
Tra le maggiori sfide del nostro secolo, infatti, moltissime costituiscono una fonte di stress per gli esseri umani ma anche per le città e gli edifici che le compongono. Le cause di tali scompensi nell’equilibrio del sistema sono da imputarsi a diversi fattori, e le responsabilità ricadono sull’intero sistema produttivo, che necessita di una fase di aggiornamento e trasformazione al fine di migliorare le proprie prestazioni in termini di sostenibilità e impatto ambientale.
Tra i tanti settori, tuttavia, quello delle costruzioni risulta essere uno dei maggiori responsabili di questa impennata nei consumi e nella produzione di agenti inquinanti: da solo, infatti, produce un terzo delle emissioni globali, consuma il 30% delle risorse, il 40% dell’energia elettrica e il 25% di acqua e genera una produzione di rifiuti pari al 40% del totale (Balasubramanian et al., 2017). Poiché le stime prevedono che entro il 2050 l’87 % della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, ci si attende che le emissioni di CO2
prodotte dal settore delle costruzioni raggiungeranno i 15.6 miliardi di tonnellate entro il 2030 (Balasubramanian et al., 2024) (World Cities Report, 2022).
Una delle cause che hanno determinato questo primato negativo è da individuarsi nella difficoltà, ancora molto presente, nell’integrare le recenti innovazioni tecnologiche, che hanno rivoluzionato molti aspetti della quotidianità, ma faticano ancora a trovare terreno fertile nell’ambito delle costruzioni. In alcuni casi, tecnologie nate in seno ad altri settori produttivi, come ad esempio la lavorazione di lamiere tramite stampo progressivo, hanno poi trovato applicazione nell’ambito della progettazione, specie per quanto riguarda elementi di arredo o componenti architettonici.
Il processo, tuttavia, è ancora lungo e si rende sempre più necessario attuare un processo di “transizione” della città e delle costruzioni, basato proprio sui principi di resilienza e che sfrutti anche le potenzialità delle tecnologie innovative (Klinc et al., 2019) (Ghobakhloo et al., 2020).
Evoluzione del concetto di involucro: da protezione a elemento dinamico
In una costruzione edilizia la facciata ha sempre rivestito un ruolo chiave, poiché essa rappresenta l’involucro esterno, quella parte della costruzione in grado di creare il maggiore impatto, fisico ed emotivo, su un osservatore, che può così leggere e vivere le scelte formali messe in atto da un progetto. Nella storia evolutiva dell’architettura, dall’antichità fino alla contemporaneità, gli elementi costruttivi sono stati quasi sempre connotati da un’intrinseca staticità e l’edificio è stato tradizionalmente identificato come un bene “immobile”, nel tempo, nello spazio e nella forma (Alotaibi, 2015).
Altro elemento prioritario nella storia dell’involucro è stato il suo ruolo di protezione e di barriera tra l’ambiente interno ed esterno. Per oltre cinque millenni la facciata è stata contemporaneamente protezione e struttura, il che ha portato alla costruzione di strutture massicce, limitate ulteriormente dalla scelta dei materiali a disposizione, che dovevano presentare caratteristiche sufficienti di resistenza e durabilità.
Gli involucri esterni erano una struttura continua, con il minimo numero di aperture e/o finestrature, in quanto raramente era possibile usare un materiale prezioso nel passato, il vetro. Con l’avvento dell’architettura gotica, ebbe inizio un processo di alleggerimento della struttura portante grazie all’uso di archi rampanti e contrafforti, che permise di ridurre gli spessori dei muri e di introdurre aperture di grandi dimensioni nelle facciate. Da semplice elemento strutturale, gli involucri iniziarono a trasformarsi in vere e proprie scelte formali, permettendo una maggior libertà compositiva e progettuale e connotando gli edifici di altezze fino a quel momento impensabili. La ricerca di altezze sempre maggiori accompagnò lo sviluppo costruttivo dei secoli successivi, fino a quando, nel XVIII secolo, non iniziò a scomparire il confine ideale che da sempre separava interno ed esterno.
Con l’introduzione di nuovi materiali da costruzione, principalmente, ferro, ghisa e vetro, prodotti con nuovi e rivoluzioni processi industriali, grazie alla scoperta del motore a vapore (1° rivoluzione industriale), le costruzioni diventarono un nuovo campo di sperimentazione con la realizzazione di strutture leggere, più semplici e più veloci da realizzare.
Il vetro, tuttavia, che da un lato permetteva l’ingresso di un quantitativo maggiore di luce nell’ambiente interno, non riusciva a fornire un grado adeguato di protezione e isolamento termico. Fu grazie allo sviluppo della produzione vetrosa e all’invenzione di tecniche che permettessero di ottenere lastre di vetro di grandi dimensioni, che tra XVIII e XIX secolo si verificò una crescita esponenziale nella produzione di serre, che tramite l’utilizzo di grandi lastre di spessore sufficiente permettevano di mantenere un comfort termico adeguato. Con l’aprirsi del XX secolo, si verificò una scissione tra le correnti architettoniche: da un lato, prese piede la tendenza ad utilizzare materiali multifunzione, che permettessero di soddisfare i requisiti necessari con il minor quantitativo di materiale possibile; dall’altro, si sviluppò la cosiddetta architettura High-Tech, in cui viene accentuata l’estetica industriale della combinazione di acciaio e vetro, e di cui possiamo ritrovare numerosi esempi virtuosi come il Centre Pompidou a Parigi o il Lloyds Building a Londra.
Il vetro, in origine considerato un materiale di lusso, e come tale impiegato con parsimonia, divenne parte integrante della progettazione di facciate e involucri, fino ad arrivare al cosiddetto “curtain wall”, una facciata continua costituita da pannelli in vetro o in altri materiali ugualmente leggeri e lavorabili. L’introduzione delle facciate continue costituì il passaggio decisivo nel rendere la facciata un elemento indipendente dal resto dell’edificio, e il concetto del curtain wall fu ereditato da altri sistemi tecnologici, tra cui rientrano ad esempio la doppia facciata, o doppia pelle, che permettono di implementare nell’elemento di facciata le funzioni di gestione del flusso d’aria e controllo della temperatura.
Nonostante le molteplici innovazioni che negli ultimi decenni continuano a riguardare il tema della facciata, presentando soluzioni tecnologiche avanzate come il vetro strutturale, il calcestruzzo rinforzato o le facciate fotovoltaiche, raramente si è riusciti a superare i limiti imposti dalla staticità dell’elemento, sebbene vi siano numerose proposte da gruppi di ricerca provenienti da diverse parti del mondo. Oggi, infatti, le sfide del settore delle costruzioni fanno sempre più riferimento a temi come la dinamicità e la capacità di adattarsi ad un contesto variabile, in continuo mutamento, e questa necessità di resilienza ha trovato una declinazione virtuosa, per esempio, nei cosiddetti involucri adattivi, anche noti come Climate Adaptive Building Shells (CABS).
Il tentativo di adattare l’edificio alle condizioni climatiche fu già fatto in passato – ad esempio nei lavori di Davies (Davies, 1981), che descriveva l’involucro dinamico come un “muro polivalente” – ma dovette fare i conti con le limitazioni imposte dall’avanzamento tecnologico dei tempi, insufficiente per effettuare un sostanziale passo in avanti.
Con l’avvento di nuove tecnologie e materiali innovativi, invece, negli ultimi decenni il tema delle facciate cinetiche e degli involucri adattivi è tornato ad essere oggetto di studi e ricerche, diffondendosi in maniera sistematica e segnando un traguardo importante nel cammino verso una nuova dimensione delle prestazioni delle costruzioni.
I CABS, quindi, vengono definiti da Loonen come un involucro che «ha la capacità di modificare ripetutamente e in modo reversibile alcune delle sue funzioni, caratteristiche o comportamenti nel tempo in risposta a requisiti prestazionali mutevoli e a condizioni al contorno variabili, e lo fa con l’obiettivo di migliorare le prestazioni complessive dell’edificio» (Loonen et al., 2013).
Il termine “adattivo” in riferimento alle facciate può essere oggetto di confusione e fraintendimenti, a causa della varietà di sfaccettature semantiche che assume a seconda del contesto di riferimento. Secondo alcuni autori, una delle classificazioni più adeguate prevede di catalogare gli involucri adattivi in base alle tecniche di controllo impiegate, distinguendo come segue: attivi, passivi, biomimetici, cinetiche, intelligenti, interattive, mobili, responsivi, smart e commutabili (Tabadkani et al., 2021).
Nello specifico, quando si parla di facciate cinetiche si fa riferimento ad una tecnologia diffusa negli ultimi decenni, che si contraddistingue per la capacità di permettere all’edificio di scostarsi dall’archetipo di elemento fisso, immobile ed immutabile. Le facciate cinetiche, o dinamiche, infatti, utilizzano sistemi mobili azionati tramite un motore, in grado di cambiare la propria conformazione spaziale per ragioni che vanno oltre la pura estetica. Spesso, infatti, queste soluzioni hanno costituito un compromesso ottimale tra forma e funzionalità, grazie alla possibilità di sfruttarne il comportamento dinamico, ad esempio, per costituire dei sistemi di protezione dall’irraggiamento solare che regolino la propria inclinazione, e conseguentemente il grado di protezione, a seconda delle necessità (Narbuts et al., 2023).
Tra i più noti esempi di applicazione delle facciate cinetiche, l’Institut du Mond Arabe progettato da Jean Nouvel, visibile in Fig. 1, risulta essere uno dei migliori esempi di come l’unione tra dinamicità e architettura possa dar luogo a risultati eccellenti. Il sistema progettato dall’architetto francese, infatti, è costituito da elementi oscuranti che funzionano secondo il meccanismo di un diaframma, regolando la propria apertura per lasciar filtrare più o meno luce all’interno (McKiernan, 2013). Un altro esempio iconico del potenziale di questa tecnologia sono le Al-Bahr Towers, visibili in Fig. 2, realizzate nel 2012 dallo studio di architettura ARUP in collaborazione con la società AHR. Ispirate alle fantasie arabeggianti della mashrabiya, le componenti mobili che ricoprono parzialmente la superficie vetrata delle due torri lanceolate svolgono principalmente una funzione di filtro tra la radiazione solare, particolarmente elevata a quella latitudine, e l’interno, che si mantiene a livelli di comfort abitativo eccellenti, nonostante i notevoli sbalzi termici dell’ambiente circostante (Babilio et al., 2019).
In un ipotetico bilancio dei pro e dei contro legati all’impiego delle facciate cinetiche come tecnologia risolutiva nella trasformazione dell’edificio in un organismo adattivo, si deve considerare che un sistema simile necessita di una fonte di energia che alimenti il funzionamento del meccanismo, nonché di una manutenzione eseguita con regolarità.
A fronte di un miglioramento delle condizioni di comfort termico e della possibilità di variare la conformazione estetica delle componenti in base alle variazioni nell’ambiente circostante, soddisfacendo al contempo le esigenze dell’utente, il sistema di facciata cinetica appare come una soluzione solo in parte preferibile all’involucro tradizionale, statico, e occorre ragionare sulle potenzialità di trasformazione del sistema per svincolarne il funzionamento e trasformarlo in un sistema passivo.
Nuove frontiere dell’innovazione: smart materials e stampa 4D
Al fine di migliorare le prestazioni di un edificio, risulta conveniente indirizzare il focus della ricerca sull’involucro, la porzione più esterna dell’edificio, che ne regola il rapporto con l’ambiente circostante, svolgendo contemporaneamente una funzione di barriera tra ambienti e di filtro nella regolazione degli scambi energetici tra interno ed esterno.
Agire sull’interazione tra involucro e stimoli ambientali (radiazione solare, flusso d’aria, vento, inquinamento acustico, ecc.) può portare ad un miglioramento nel comfort interno e, soprattutto, nella riduzione dei consumi di energia e dell’impatto ambientale del sistema edificio. Sebbene le facciate siano tradizionalmente progettate per rispondere non solo alle scelte compositive architettoniche, ma anche alle condizioni climatiche medie, ancora oggi l’involucro non presenta caratteristiche di efficienza ottimali. I sistemi di facciata convenzionali, per esempio, non sempre costituiscono una soluzione sufficiente per fronteggiare gli sbalzi climatici, a volte anche estremi, sempre più frequenti: la staticità che da sempre connota gli edifici e le loro parti costitutive non è più considerabile solamente come un punto di forza o un indicatore della qualità della costruzione, ma anche come un limite che, nel caso dell’involucro, va superato in quanto impedisce alla costruzione di adattarsi alle variazioni climatiche dell’ambiente circostante (Juaristi et al., 2018).
Negli ultimi decenni sono stati fatti dei sostanziali progressi per quanto riguarda l’introduzione della componente dinamica nella progettazione dell’involucro, e nella maggior parte dei casi le soluzioni prevedono l’uso di controlli domotici con l’ausilio di sistemi motorizzati a basso consumo. Il comportamento delle facciate cinetiche impiega un sistema attivo azionato da un piccolo motore elettrico che necessita, ovviamente, di manutenzione, come ogni componente ed elemento di una costruzione.
Allo scopo di proporre una soluzione alternativa, e per certi aspetti innovativa, è possibile puntare maggiormente sul concetto di sistema passivo, in grado di “sfruttare” l’energia solare e/o eolica senza richiedere un consumo energetico e di conseguenza non causare inquinamento atmosferico.
Una possibile proposta che segua questa strada è l’uso di materiali che siano in grado di cambiare forma in base alle condizioni di luce e/o calore, senza il supporto di un attuatore meccanico.
In questo ambito di proposte innovative, emerge il concetto di “stampa 4D”, derivata dalla già esistente stampa 3D, con la quale condivide pressoché ogni caratteristica ad eccezione dei materiali impiegati in fase di realizzazione degli oggetti. La differenza sostanziale tra le due metodologie di manifattura additiva, infatti, risiede nell’utilizzo di materiali detti smart, categoria di cui fanno parte alcuni polimeri e leghe metalliche, caratterizzati dal cosiddetto effetto di memoria di forma.
Gli oggetti prodotti tramite stampa 4D, come visibile in Fig. 2, sono in grado di cambiare la propria conformazione spaziale nel momento in cui vengono sottoposti a uno stimolo di natura variabile (termico, magnetico, chimico, ecc.), trasformandosi senza che ciò intacchi l’integrità della struttura, per poi ritornare alla forma originaria una volta cessata l’esposizione all’elemento stimolante. Riportando quanto dice Eujin Pei (Pei, 2014), la stampa 4D è “il processo di costruzione di un oggetto fisico, con un’appropriata tecnologia di manifattura additiva, depositando strati consecutivi di compositi reattivi a uno stimolo o di multimateriali, con diverse proprietà”.
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L’articolo prosegue illustrando il processo di stampa 4D e le prospettive future nella progettazione dei pannelli di facciate cinetiche sfruttando smart materials e stampa 4D.
Nota delle autrici: Quanto riportato all’interno del presente articolo si inserisce all’interno di un percorso di Dottorato di Ricerca, nell’ambito del D.M. 352 del 9.04.2022, cofinanziato dall’Università di Genova e dalla società DVision Architecture srl. Si ringraziano l’arch. Alessandro Vitale, responsabile scientifico per DVision Architecture, e il prof. Frédéric Demoly, direttore del dipartimento CO2M dell’Université Technologique de Belfort Montbéliard per la fiducia e la sinergia dimostrate.
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