Il Messico è una Repubblica presidenziale federale composta da 31 stati, più Città del Messico. Con 130 milioni di abitanti distribuiti su un territorio vastissimo di 1,96 milioni di chilometri quadrati, il Paese rappresenta una delle 15 economie più forti al mondo. Il suo PIL globale è secondo solo a quello del Brasile in America Latina. Tuttavia, il divario tra ricchi e poveri è enorme: secondo i dati governativi, oltre 50 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà. I principali problemi del Paese sono la deforestazione, il grave inquinamento della capitale, il difficile accesso all’istruzione e, recentemente, la siccità. Ma il problema più grande rimane il crimine organizzato.
Dal 2006, i vari governi che si sono succeduti hanno sempre dichiarato apertamente il loro impegno contro il crimine organizzato, presentandolo come unica strategia di sicurezza e giustizia interna. La “Guerra alla Droga”, iniziata nel 2006, ha causato un aumento esponenziale delle violazioni ai diritti umani, generando pratiche sistematiche di corruzione ed impunità. Si stima che dal 2006 a oggi siano state uccise 450.000 persone, il 70% delle quali coinvolte nella violenza del narcotraffico condotto dai Cartelli della Droga. La maggior parte di questi decessi (considerando anche l’altissimo numero di “desaparecidos”) è attribuibile principalmente alla lotta territoriale fra i Cartelli, che operano in quasi tutto il paese nel tentativo di ottenere maggiore controllo sui punti strategici per i loro traffici e sulla rotta migratoria verso gli USA. Scontri per il controllo del territorio, regolamenti di conti, sequestri e intimidazioni sono solo alcune delle ragioni che spingono i Cartelli ad uccidere.
Nel mio periodo in Messico ho avuto modo di parlare con molti messicani, alcuni dei quali minimizzano, forse non vogliono vedere, o hanno paura semplicemente di raccontare ciò che accade dietro il velo di un teatro per turisti fatto di mare, sole e bellezze naturali. Ma c’è chi, nonostante, o forse proprio per la giovane età, decide di raccontare la propria esperienza diretta.
Josuè, 26 anni, da due mesi a Merida, ha lasciato lo Stato di Guanajato in cerca di una vita più tranquilla. “La città di Guanajato è poco sicura. Ero stanco di tutta quella violenza”.
Mi racconta di come ci siano Cartelli un po’ in tutto il Messico.
I più importanti sono il Cartel di Jalisco Nueva Generation, il Cartel Santa Rosa de Lima (proprio dello Stato di Guanajato), il Cartel del Golfo, il Cartel di Sinaloa e los Zetas.
“Ho amici con i quali sono cresciuto e che hanno scelto di fare questa vita. Si adattano a questo stile e a questa forma di vivere. Non sanno se domani saranno ancora vivi. Li ho visto cambiare nel tempo. Hanno soldi ma non sono felici, sono poveri dentro… hanno gli occhi spenti (la “mirada perdida” la chiama) perché sanno che vanno a morire. Per questo ho scelto di andarmene”.
I bambini crescono vedendo armi, violenza, droga.
“Si impara da ciò che si vede” aggiunge.
Gli chiedo come avvengano o se abbia mai assistito ad atti di violenza.
“Cartello contro Cartello, oppure Cartello contro esercito. Si sparano per strada e la gente si nasconde. E questo succede 2 o 3 volte alla settimana. Questa è la realtà! Oppure la mattina, stai andando a lavoro, si sale sul bus, e il Cartello lo ferma. Ti fanno scendere e gli danno fuoco. Lo usano come depistaggio, per fermare la strada, così la polizia e i pompieri si concentrano in quel punto e loro, nel frattempo, possono fare i loro comodi da un’altra parte”.
Parlando con Josuè mi soffermo sulla sua vita, sulle persone che ha dovuto lasciare.
“Mio padre se ne andò anche lui. Sono restate mia madre e mia sorella. Mio padre è a Villahermosa ma anche lì è un po’ pericoloso. Li la situazione è molto tesa. Quello che stava succedendo a Guanajuato ora sta succedendo a Villahermosa. All’inizio ho pensato me ne vado da un posto per trovare tranquillità e anche qui succedono atti di violenza. Ma poi ho trovato in Merida un luogo tranquillo”.
Mi chiedo come tutto ciò abbia preso piede, se la gente non sia anche un po’ in parte responsabile, conoscendo le dinamiche della Mafia nel nostro paese.
“I Cartelli hanno una mentalità molto povera, ma sono astuti. Hanno approfittato e manipolato il modo di pensare della gente, romanticizzando il loro modo di agire per poter reclutare persone e avere l’appoggio della gente stessa. Per esempio, Jalisco e Sinaloa sono fra i più importanti ma anche i più sensibili al consenso del popolo”.
Gli chiedo cosa intende e mi spiega che “proteggono le loro zone, e fanno ciò che il governo non fa. Li proteggono dagli altri Cartelli. Per esempio, intervengono in caso di estorsioni o rapimenti. Ti danno sicurezza ma creano insicurezza. Quando ci sono feste culturali il Cartello da soldi perché arrivino i migliori artisti o per l’organizzazione dell’evento. Si sostituiscono alle istituzioni e la società li accetta per questo”.
Se è questo il mondo in cui è cresciuto gli chiedo perché lui non ne abbia fatto parte e se in qualche modo sia mai stato avvicinato dai Narcotrafficanti.
“Certo. Ma non avviene in segreto. Avviene normalmente. Io ho avuto l’opportunità di lavorare con loro ma ho detto di no. Ed è stata la miglior decisione della mia vita. Eravamo seduti così come io e te in questo momento. Mi hanno chiesto, parlando del più e del meno, se volessi fare un lavoro e mi hanno detto quanto sarebbe stata la paga. Così si inizia, come se fosse un lavoro normale. Ed è proprio questo il problema, che si vede come un lavoro normale inizialmente, e poi quando hai responsabilità e ci sei dentro non puoi più uscire. Hai una responsabilità verso il gruppo, e devi rispondere come uomo e portar rispetto”.
Una forma di pensare e di agire all’apparenza molto nobile, ma povera di sentimento.
“Corrompi la tua anima, la tua morale. Ti danno un’arma in mano e “si no mata te matan” (se non uccidi ti uccidono). Tutto per il potere e per i soldi”.
Questa realtà che ormai da anni sta avvelenando il paese, mostrando all’estero la versione più brutta di sé, va ad incidere sulla cultura e sull’immagine del popolo messicano.
“È una realtà messicana, ma non è la cultura messicana. C’è da dire però che la storia del Messico è sempre stata segnata da guerre. I Maya, gli Aztechi, e i Toltechi prima. Poi con gli invasori. Internamente le cose sono sempre state regolate con la guerra. E c’è sempre stata anche una parte importante da parte del nostro Governo e dei Militari”.
Una storia fatta di violenza, di sangue come il color rosso della bandiera, simbolo del sangue versato dagli eroi della patria. Una storia che si ripete, aspettando che prima o poi qualcuno cambi il finale.
Foto Credits: Miguel Tejada-Flores, Attribution-NonCommercial 2.0 Generic – attraverso Flickr
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