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La complessa evoluzione delle capacità nel diritto

Nel corso della storia, qualsiasi espansione dei diritti è stata inizialmente considerata impensabile. Lo abbiamo già detto e ribadito. Un tempo l’emancipazione degli schiavi o l’estensione dei diritti alle persone di origine africana, alle donne e ai bambini venivano respinte come assurde. Nel corso della storia è stato necessario riconoscere “il diritto ad avere diritti”, e ciò ha sempre richiesto uno sforzo politico e giuridico per cambiare le visioni, i costumi e le leggi che negavano tali diritti.

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Ricordiamo, con Walter Benjamin, che “la lotta contro i processi alle streghe è una delle più grandi lotte di liberazione dell’umanità”. In linea con il significato di questa e di molte altre lotte di emancipazione, accettare che la natura abbia dei diritti – propri – è parte della lotta dell’umanità per l’espansione permanente dei diritti.

La capacità – intesa come possibilità di essere titolari di diritti e doveri – è un concetto che ha avuto una sua evoluzione e che presenta delle eccezioni. Tutti abbiamo la capacità di esercitare dei diritti. La capacità di esercizio è la possibilità di esercitare personalmente i diritti e i doveri che tutti abbiamo. Il concetto di capacità, come ogni categoria giuridica positiva, è convenzionale (dipende dalle decisioni) ed evolve nel tempo. L’ampliamento del concetto di capacità non è stato facile, ma nemmeno impossibile: è qualcosa che è stato difficile accettare razionalmente ed è per questo che quasi sempre, quando si proponeva una modifica, veniva considerata una barbarie giuridica e perfino una cosa sensa senso. Lo stesso accade con il riconoscimento della natura come titolare dei diritti.

Oltre alle persone fisiche – gli esseri umani – le società, i sindacati e gli Stati sono entità non naturali che hanno diritti e doveri secondo la legge. Hanno il diritto di agire in giudizio se subiscono danni e hanno l’obbligo di non violare i diritti degli altri. Il sistema giuridico tradizionale non presenta grandi difficoltà nell’attribuire diritti (quasi) umani a queste persone non fisiche, ma si oppone a concederli alla natura. E questo è ancora allarmante, o almeno sorprendente, poiché è la natura che ci garantisce il diritto alla vita.

Come sottolinea Joel I. Colón Ríos, in una relazione presentata al Seminario internazionale “Diritti della natura: applicazioni e tendenze”, tenutosi a Guayaquil, Ecuador, nel dicembre 2012:

“Il riconoscimento dei diritti alle entità naturali non umane si accompagna necessariamente all’attribuzione a tali entità della capacità giuridica di avviare, attraverso un individuo o un gruppo, processi volti a far valere tali diritti. In altre parole, essere titolare di un diritto implica avere il potere di rivolgersi a proprio nome a qualche istituzione pubblica per ottenere un rimedio. Ciò significa, a sua volta, che a queste istituzioni viene dato il mandato di verificare se si siano verificate azioni che violano i diritti legalmente riconosciuti, nonché il potere di concedere un rimedio che avvantaggi direttamente coloro i cui diritti sono stati violati”.

Per comprendere la capacità della natura, è utile riportare quanto scrive il dottor Ramiro Ávila Santamaría, ex giudice della Corte Costituzionale dell’Ecuador e uno dei giuristi più riconosciuti a livello mondiale sui temi dei diritti della natura:

“Lo status del titolare del diritto è cambiato nel tempo. Inizialmente, nel costituzionalismo moderno, solo il borghese proprietario aveva status giuridico: questo cominciò ad espandersi, con il costituzionalismo sociale, all’operaio e al contadino; le donne, gli indigeni e gli anziani furono integrati. Ultimamente lo status è stato esteso a tutte le persone e – alla fine – lo status si è esteso alla natura.
In altri termini, il concetto di diritto soggettivo e le sue condizioni evolvono verso l’espansione e una maggiore integrazione dei soggetti tutelati e, in ultima analisi, dipendono dal dibattito democratico in uno Stato costituzionale. Dalla storia del concetto, e anche dalla teoria positivista, risultano soddisfatti i presupposti affinché la natura possa essere considerata soggetto di diritti.
[…] Ad un certo punto della storia deve essere stato così ovvio che solo i proprietari, che lavoravano senza rapporto di dipendenza, istruiti, con accesso all’alfabetizzazione e che erano uomini, erano gli unici considerati giuridicamente capaci. E deve essere stato difficile, come talvolta si sente dire, accettare che anche le donne potessero essere considerate capaci ed esercitare le loro libertà indipendentemente dagli uomini o addirittura dai loro mariti.
[…] Ma l’importante della figura dell’incapacità è il rispetto allo status di soggetto di diritto attraverso l’istituto chiamato “rappresentante legale” o “tutela”. La persona, per quanto incapace sia considerata, resta titolare di diritti. Il problema è che alcuni diritti non vengono più esercitati di per sé stessi: se ne incarica un terzo denominato “rappresentante”. Un bambino di cinque mesi i cui genitori muoiono, ha diritto all’eredità, ma l’amministrazione di questa richiederà un rappresentante. Una persona considerata demente non cessa di essere proprietaria né cessa di essere genitore o cittadina, ma le verrà nominato un rappresentante. Anche in caso di incapacità assoluta, i diritti non possono non essere esercitati. La maggior parte dei diritti continuano ad essere esercitati da soggetti incapaci, come quello di vivere, esprimersi, mangiare, ricrearsi, riposarsi, relazionarsi.”

In questo testo chiarificatore di Ramiro Ávila Santamaría, crediamo che questo punto sia sostanziale:

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“L’incapacità delle persone è compensata dalla rappresentanza. L’effetto della rappresentanza è che «ciò che uno compie per conto di un altro, avendo avuto da lui o dalla legge il potere di rappresentarlo, produce nei confronti del rappresentato gli stessi effetti che avrebbe avuto qualora avesse agito lui stesso». Questo argomento può essere applicato alla natura? Senza dubbio sì. La natura non ha bisogno degli esseri umani per esercitare il proprio diritto di esistere e rigenerarsi. Ma se gli esseri umani la distruggono, la contaminano, la depredano, sarà necessario che gli esseri umani, in qualità di rappresentanti, esigano il divieto di firmare un contratto o un accordo con il quale si vuole abbattere una foresta primaria protetta o intentare causa giudiziaria per la sua riparazione o restauro.
Il diritto ha ampiamente riconosciuto il diritto di rappresentanza e la capacità delle persone giuridiche, che sono entità astratte, fittizie, immateriali, e nulla impedisce il riconoscimento dei diritti alla natura che – al contrario – è materiale, reale e tangibile.”

Nello stesso senso, in La Pachamama y el humano (2012), il già nominato giurista Eugenio Raul Zaffaroni spezza lance a favore dei diritti della natura affermando che: 

“l’argomento secondo cui il riconoscimento dei diritti non è ammissibile perché non si possono esigere (esercitare azioni, essere ascoltati giudizialmente) non regge, perché ci sono molti esseri umani che mancano della capacità di linguaggio (oligofrenici gravi, feti) o che non l’avranno mai (decerebrati, dementi agli ultimi stadi) e, tuttavia, nessuno pensa di negare loro questo carattere, a pena di cadere nella tesi genocida delle vite prive di valore vitale di uno dei picchi del pensiero penale, considerato dai più come un peccato di anzianità o qualcosa di simile.”

Non esiste, quindi, alcun impedimento giuridico né tecnico per l’estensione dei diritti e legittimazione attiva a entità naturali non umane, soggetti di diritti. Per chiudere questo punto basterebbe passare in rassegna l’evoluzione della capacità di esercizio dei diritti nell’ambito costituzionale latinoamericano. Dal diritto che avevano le prime costituzioni della Nuestra America, solo gli uomini, i bianchi, i proprietari terrieri, gli alfabetizzati, i membri della religione cattolica, apostolica e romana, si sono fatti passi notevoli fino ai giorni nostri. Continuare a farne non solo è possibile: è un obbligo ineludibile.

Comparare i progressi nella giurisprudenza e nella legislazione

Nel 1972 si svolse negli Stati Uniti uno dei casi ambientali più emblematici: Sierra Club v. Morton (405 US 727). Nel 1969, il Servizio Forestale degli Stati Uniti approvò un piano della Walt Disney Enterprises per sviluppare un complesso di motel, ristoranti, piscine, parcheggi e altre strutture nella Mineral King Valley, parte della Sequoia National Forest. La nota organizzazione Sierra Club intentatò una causa per fermarne lo sviluppo. Il caso è arrivato tramite ricorso alla Corte Suprema di quel paese, dove il giudice William Douglas emise un’opinione dissenziente dimostrando che l’idea di concedere una legittimazione attiva a fiumi, animali e montagne non si limita agli scritti accademici o agli sviluppi costituzionali del secolo XXI. Pertanto, questo giudice, citando le argomentazioni di Christopher Stone, sostenne che tutti gli oggetti ambientali dovrebbero avere la capacità di rivendicare la propria conservazione.

Il giudice Douglas sottolineò che il problema della legittimazione attiva, cioè di chi ha la capacità di intraprendere un’azione legale, verrebbe risolto con una norma che consenta di promuovere azioni a tutela dell’ambiente “in nome dell’oggetto inanimato a rischio di essere deturpato, sfigurato o invaso da strade e trattori e quando tali danni sono oggetto di pubblica indignazione”. Il crescente interesse della gente alla protezione dell’equilibrio ecologico, aggiunse, dovrebbe portare a riconoscere una legittimazione attiva alle entità naturali non umane in modo che esse, attraverso i rappresentanti, possano “richiedere la propria preservazione”. Per il giudice William Douglas, se la legge riconosce personalità giuridica alle multinazionali e alle imprese, non dovrebbero esserci grossi problemi a fare lo stesso con “le valli, le praterie, i fiumi, i laghi, gli estuari, le spiagge, le catene montuose”, le piantagioni di alberi, le paludi e persino l’aria che sente le pressioni della vita e della tecnologia moderna”. Riguardo ai fiumi, dichiarò:

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“Il fiume, ad esempio, è il simbolo vivente di tutta la vita che sostiene o nutre: pesci, insetti acquatici, miche acquatiche, nutrie, pescatori, cervi, alci, orsi e tutti gli altri animali, compreso l’uomo, che da esso dipendono o che godono della sua vista, del suo suono o della sua vita. Il fiume in quanto denunciante parla dell’unità ecologica della vita di cui fa parte. Coloro che hanno una relazione significativa con quella massa d’acqua – sia esso un pescatore, un canoista, uno zoologo o un taglialegna – devono poter parlare a nome dei valori che il fiume rappresenta e che sono minacciati di distruzione.”

Anni dopo, quando nel 1982 venne promulgata la Carta Mondiale della Natura, venne esplicitato che

“ogni forma di vita è unica e merita di essere rispettata, qualunque sia la sua utilità per l’uomo, e per riconoscere agli altri esseri viventi il ​​loro valore intrinseco, l’uomo deve essere guidato da un codice di azione morale” e che “la civiltà ha le sue radici nella natura, che ha plasmato la cultura umana e influenzato tutte le [sue] opere”. Nel 2000, le Nazioni Unite hanno proclamato la Carta della Terra in cui si afferma che “la Terra, la nostra casa, è viva grazie a una comunità di vita unica […] la protezione della vitalità, della diversità e della bellezza della “Terra è un dovere sacro.”

Nel 2009, “convinta che l’umanità possa e debba vivere in armonia con la natura”, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha invitato gli Stati e gli organismi del sistema a considerare “la questione della promozione della vita in armonia con la natura” (art. 1, AG 2009). Nell’agosto 2010 fu pubblicato il primo rapporto del Segretario Generale sull’Armonia con la Natura e nel dicembre dello stesso anno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua 65a sessione, adottò la seconda risoluzione sull’Armonia con la Natura. Nel giugno 2012, la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile (Rio+20) menzionò esplicitamente i “diritti della natura” nel suo documento conclusivo.

Nel 2012, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) ha adottato una politica per incorporare i diritti della natura nei suoi processi decisionali. Un importante parere della Corte Interamericana dei Diritti Umani del novembre 2017, oltre a confermare esplicitamente la relazione intrinseca tra godimento dei diritti umani e un ambiente sano, va oltre nel precisare che: 

“il diritto ad un ambiente sano come diritto autonomo […] tutela componenti dell’ambiente, quali foreste, fiumi, mari ed altri, come interessi giuridici a sé stanti, anche in assenza di certezza o evidenza circa il rischio per le singole persone. Si tratta di proteggere la natura e l’ambiente non solo per il suo nesso con un’utilità per l’essere umano o per gli effetti che il suo degrado potrebbe provocare sui diritti di altre persone, come la salute, la vita o l’integrità personale, ma per la sua importanza per gli altri organismi viventi con cui il pianeta è condiviso, che meritano anch’essi protezione. (Parere consultivo Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo – IACHR oc-23/17 del 15 novembre 2017 sollecitato dalla Repubblica di Colombia).”

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Le prime ordinanze municipali sui diritti della natura sono state emanate a livello comunitario negli Stati Uniti a partire dal 2006. Esistono più di trenta normative locali, ancora in vigore in dieci stati. Nel 2006, infatti, la comunità di Tamaqua (contea di Schuylkill, Pennsylvania) è diventata uno dei primi luoghi negli Stati Uniti e nel mondo a riconoscere i diritti della natura mediante una esplicita normativa. In seguito, nel 2010, il Consiglio di Pittsburgh (sempre in Pennsylvania) ha approvato all’unanimità un’ordinanza che riconosce i diritti della natura come parte del divieto di trivellazione e fracking. Da allora, più di 36 comunità in Pennsylvania, Ohio, New Mexico, New York, Maryland, New Hampshire e Maine hanno approvato ordinanze che codificano i diritti della natura.

Dopo la Costituzione ecuadoriana del 2008, il dibattito si è aperto con forza in Bolivia, senza mai arrivare a costituzionalizzare la natura come soggetto di diritti. Sarà dopo il già citato vertice di Tiquipaya, vicino a Cochabamba, che in Bolivia entrerà in vigore la Legge 71 sui Diritti di Madre Natura, alla fine del 2010. Lì è stato riconosciuto un pacchetto di diritti fondamentali: diritto alla vita, diritto a conservare l’integrità dei sistemi viventi e dei processi naturali che li mantengono e anche la loro rigenerazione; diritto di conservazione della diversificazione e la diversità degli esseri nella Madre Natura senza che siano geneticamente modificati in maniera artificiale.

Nell’art. 4 della legge boliviana si prevede anche il dovere dello Stato, e di ogni persona singola o collettiva, affinché “i diritti della Madre Terra per il buon vivere delle generazioni attuali e future” siano rispettati, protetti e garantiti. Poiché la Madre Terra, in questa normativa, costituisce un soggetto collettivo sacro di pubblico interesse, l’art. 6 indica che “ogni conflitto tra diritti deve essere risolto in modo da non incidere in modo irreversibile sulla funzionalità dei sistemi di vita”.

In Ecuador e Bolivia, senza essere costituzionalizzato, è previsto il ​​diritto degli esseri umani a difendere individualmente o collettivamente i diritti della natura e il correlativo obbligo dello Stato di promuovere tale difesa.

Nel 2017, Città del Messico ha approvato una nuova Costituzione che include disposizioni che richiedono l’esercizio dei diritti della natura, come il riconoscimento e la regolamentazione per “una più ampia protezione dei diritti della natura formata da tutti i suoi ecosistemi e specie come entità collettiva soggetta a diritti”.

La difficile costruzione della giustizia ecologica

Nonostante l’importante legislazione e giurisprudenza sviluppate nel mondo, l’effettiva applicazione dei diritti della natura si scontra con la modalità di accumulazione imperante. A queste resistenze collabora inoltre la debolezza d’azione degli operatori giuridici, che non vogliono o non comprendono la trasformazione delle categorie giuridiche che questo cambiamento di paradigma comporta come conseguenza. Tuttavia è inaccettabile sostenere che tali diritti siano inutili. Al contrario.

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Le lotte per rendere la sua cristallizzazione una realtà sono sempre più urgenti, come nel caso dei diritti umani di ogni tipo, come i diritti delle donne, dei discendenti afro e degli indigeni, che non si arrendono nella loro disputa permanente, visto che siamo lontani dalla sua piena validità.

Il riconoscimento dei diritti della natura ci spinge, quindi, ad avere un altro campo di giustizia, la giustizia ecologica, il cui obiettivo si concentrerà sulla garanzia dei processi vitali e non sulla risoluzione dei conflitti attraverso compensazioni economiche. In questo campo, la giustizia ecologica mira a garantire la persistenza e la sopravvivenza delle specie e dei loro ecosistemi come reti di vita. Questa giustizia è indipendente dalla giustizia ambientale.

È fondamentale che questa distinzione tra giustizia ambientale e giustizia ecologica sia ben compresa. È una novità e anche molto sostanziale. Si tratta di un impegno ancora più radicale: qui non si tratta di individuare gli eccessi, di mantenere soglie di non inquinamento o di prevedere compensazioni economiche, ma piuttosto di garantire i cicli vitali.

Di conseguenza, la giustizia ecologica, a differenza del diritto ambientale classico, non si concentra sull’individuazione di parametri o livelli di contaminazione che superano la norma, ma piuttosto sullo studio degli effetti sui cicli di vita, la struttura, le funzioni e altri processi tipici di un dato ecosistema. Non è loro compito risarcire gli esseri umani per i danni ambientali. Si esprime, invece, attraverso il ripristino degli ecosistemi colpiti. In realtà, le due giustizie devono essere applicate contemporaneamente: quella ambientale per l’uomo e quella ecologica per la natura, il tutto nella chiave di un’altra giustizia per un’altra civiltà.

Se accettiamo che una nuova etica sia necessaria per riorganizzare la vita sul pianeta, è essenziale aggiungere alla giustizia sociale e alla giustizia ambientale, derivata dai diritti umani, la giustizia ecologica, derivata dai diritti della natura. E se andiamo oltre, non si tratta di una semplice somma di giustizia sociale/ambientale ed ecologica, perché in realtà, per cristallizzare la svolta copernicana proposta, dobbiamo assumere questo rapporto come una moltiplicazione, nella quale interviene come un altro fattore nel comportamento etico nei confronti della vita, che possiamo intendere come una radicalizzazione della democrazia a tutti i livelli. E se è così, se anche uno solo di questi fattori – giustizia sociale, giustizia ecologica, democrazia – tende a zero, anche il risultato finale sarà zero.

Un punto fondamentale: l’universalità dei diritti della natura

Vale la pena ricordare che esistono proposte correlate con l’obiettivo di assumere l’universalità dei diritti della natura. Anche la Costituzione ecuadoriana è stata utilizzata come base per difendere i territori indigeni fuori dalla sua giurisdizione, ad esempio, con azioni pubbliche per impedire la costruzione della Centrale Idroelettrica a Belo Monte, in Brasile. La denuncia, formulata dal procuratore Felicio Pontes, ha evidenziato come riferimento la Costituzione dell’Ecuador, sottolineando che “potrebbe essere più didattico, chiaro e opportuno applicare i diritti della natura per la distruzione del territorio dello Xingu”.

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In Ecuador, è stata intentata una causa davanti alla Corte Costituzionale in difesa dell’oceano, in seguito alla distruzione provocata dal naufragio della piattaforma petrolifera della British Petroleum nel 2010. Anche se questa causa non ha avuto successo, è un chiaro segnale per assumere l’universalità di questi diritti, equivalente a quella dei diritti umani: basta citare l’arresto del dittatore cileno Augusto Pinochet in Europa perché si ritiene che le violazioni dei diritti umani siano suscettibili di sanzioni in tutto il pianeta.

In linea con la crescente accettazione dei diritti della natura, si consolida il concetto di ecocidio. Tanto che dal 2021 ha una definizione giuridica accettata a livello internazionale. Nello specifico, per “qualsiasi atto illecito o arbitrario perpetrato con la consapevolezza che esistono grandi probabilità che possano causare danni gravi, estesi o duraturi all’ambiente”.

Nel 2012 è nata l’iniziativa cittadina Let’s End Ecocide in Europe, per dare diritti alla Terra al fine di riconoscere e affrontare i gravi danni ambientali, che non sono un problema locale, ma colpiscono la comunità internazionale e colpiscono i diritti umani. Al di là di questa iniziativa che appare ancora intrappolata nella logica antropocentrica, recuperiamo senza mezzi termini ciò che l’ecocidio implica da una visione biocentrica, ptoptia dei diritti della natura. Ciò ci consente di affrontare efficacemente le sfide ecologiche. Parafrasando il detto “tutte le strade portano a Roma”, sosteniamo che – prima o poi – tutte le strade condurranno al ricongiungimento con la Madre Terra, avendo i diritti della Terra come propiziatori di processi che li vadano universalizzando nella misura in cui diamo vita all’indispensabile giro copernicano.

(7. Continua)

-> Economista ecuadoriano e giurista ambientalista argentino, coautori del libro “La Naturaleza sì tiene derechos. Aunque algunos no lo crean”. Giudici del Tribunal Internacional de los Derechos de la Naturaleza. Membri del Pacto Ecosocial, Intercultural del Sur.
* Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network
 


Tratto da:

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La naturaleza sí tiene derechos. Aunque algunos no lo crean
Alberto Acosta, Enrique Viale
Siglo Veintiuno Editores, Argentina, 09/2024 – 208 pp.
 


 



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