Pubblichiamo integralmente l’articolo curato da Simone Morandini, membro del comitato scientifico della Fondazione Lanza, docente e direttore di CredereOggi, all’interno dell’ultimo numero della rivista Etica per le professioni a tema Vulnerabilità: da ferita a risorsa.
Vulnerabilità: un termine astratto, che rimanda però a persone concrete, lacerate; come noto, esso viene da vulnus, ferita. Dovremmo forse entrare nella nostra meditazione su di esso guardando alla concretezza di tanti corpi colpiti; purtroppo non è davvero difficile trovarne in questo tempo, tra le molte crisi che interessano aree come Israele o l’Ucraina, tra le vittime dei naufragi nel Mediterraneo o nelle situazioni di violenza sulle donne, troppo spesso sfociate in femminicidi. Ma queste sono solo suggestioni, per dare espressione nella specificità di casi tangibili ad una condizione che è condivisa: tutti e tutte siamo vulnerabili – non specifiche categorie – in primo luogo perché corporei/e.
Certo, sappiamo bene che la vulnerabilità non è esclusivamente legata all’immediata esposizione al danno fisico: ci sono parole taglienti come lame, pesanti come pietre, che possono ribaltare esistenze o quanto meno farci passare giornate oscure; ci sono relazioni – anche virtuali – nelle quali ci esponiamo al rapporto con altri e così facendo ci rendiamo vulnerabili ad essi. Ogni forma di comunicazione, in effetti, proprio perché crea legami e contatti, apreanche la possibilità che attraverso di essi ci raggiunga qualcosa di tagliente, in grado di ferirci.
Notiamo, però, che nelle ultime righe il linguaggio del vulnus ha assunto una forma metaforica, collegando la concretezza del significato etimologico a dimensioni della nostra esistenza non immediatamente fisiche. Vorrei invece in questa riflessione ripartire da alcuni elementi molto basici, per cogliere a partire da essi alcune dimensioni della vulnerabilità (la cui rilevanza non è peraltro limitata ad essi). Ci si aprirà così uno spazio per una riflessione teologica, in cui il riferimento alle Scritture si intreccerà con alcune indicazioni del Magistero di papa Francesco.
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Esposti
Penso, in primo luogo, alla nostra esposizione ad una realtà naturale che ci sovrasta in forme spesso minacciose. L’ha efficacemente rappresentata Leopardi nel noto dialogo tra la natura e l’islandese nelle Operette Morali: siamo colpiti dal caldo, dal freddo, dalle malattie (il COVID ha rinnovato in modo drammatico tale esperienza) o da molti altri fattori. La natura è in questo spesso imprevedibile, come disegna la chiusa del dialogo succitato: neppure si sa se la vita dell’islandese giunga al suo termine per i leoni, per il vento o forse per altri fattori, non noti. Si tratta di un’esperienza cui ogni vivente fa fronte, in ogni fase della sua vicenda sulla Terra; la specie umana lo ha fatto in modo particolarmente efficace, grazie a due strategie: la tecnica e la cooperazione (la creazione, cioè, di comunità).
Facile da un lato cogliere come proprio il contrasto alla vulnerabilità sia una delle matrici che hanno favorito lo sviluppo della prima, elemento qualificante delle pratiche di una specie che sempre più ha innestato sulle dinamiche lente dell’evoluzione biologica la rapidità di quella culturale. Guardare alla tecnica in tale prospettiva permette di coglierne il sorgere non come progetto di dominio del mondo, ma piuttosto come tentativo di rendercelo abitabile, contenendo la nostra esposizione nei suoi confronti.
Vorrei però soffermarmi in questa sede in modo un po’ più ampio sulla seconda dimensione (che, tra l’altro, è per molti aspetti anche condizione necessaria per lo sviluppo, il mantenimento e l’efficacia della prima); lo farò evocando tre riferimenti, in una prospettiva interdisciplinare. Un biologo come Michael Tomasello ha mostrato come per la specie umana la capacità di interazione sociale e cooperativa su larga scala – incomparabile rispetto a quella di qualunque altro animale dotato di senso di individualità a noi noto – sia stata determinante non solo per il nostro successo evolutivo, ma anche per la genesi dei comportamenti morali. In altra direzione possiamo attingere allo stesso Leopardi, che nella Ginestra dinanzi ad una natura matrigna disegna un’“umana compagnia” che “tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita”. Ma pensiamo anche all’icona offertaci dalla pratica dell’ospitalità delle popolazioni del deserto: un contrastare la minaccia di una natura particolarmente inospitale con la cura premurosa per chi si presenta alle tue porte. La Scrittura ne disegna un’icona nella storia di Abramo alle querce di Mamre (Gen. 18, 1-8), che sottolinea pure come tale spazio donato all’ospite – esponendosi tra l’altro vulnerabilmente al rischio del tradimento – porti doni di vita, carichi di futuro.
Cooperazione, reciproco aiuto, ospitalità appaiono insomma come comportamenti morali, che riducono la nostra vulnerabilità nei confronti del mondo. Essi creano tra l’altro un ambito di socialità che favorisce l’espandersi della dimensione culturale (e quindi tra l’altro lo sviluppo della tecnica).
Vulnerabilità, diritto e diritti
Al via il secondo anno di ricerca della Fondazione Lanza intorno al tema della vulnerabilità con un ciclo di 6 webinar su zoom.
Qui il programma e la locandina di Vulnerabilità diritto e diritti
Rivedi gli incontri del primo anno di studio sul tema della Vulnerabilità
Violenti
Potrei chiudere qui questo intervento, avendo posto le premesse per tracciare un percorso – essenziale e fragile ma lineare – tra una percezione della vulnerabilità ed un’etica della cura reciproca. Purtroppo, però, le cose non sono così semplici; la percezione dell’umana vulnerabilità è legata anche ad un altro ordine di realtà, drammaticamente evocato dalle tante immagini di guerra cui accennavo in apertura. La vulnerabilità, infatti, non è tale solo nei confronti della violenza di una natura spesso inclemente; è anche reciproca vulnerabilità. L’esposizione alle minacce provenienti dalla natura si reduplica, cioè, in relazione a quelle legate alla violenza di altri esseri umani, cui pure – ed in misura anche maggiore – siamo esposti. Anche in essa c’è una componente di imprevedibilità, talvolta incomprensibile persino a chi la mette in opera, come evocato efficacemente dall’Aiace di Sofocle.
Aggiungiamo pure che – collocate in questo spazio – anche tecnica e cooperazione si volgono in strumenti che accrescono la nostra capacità di ferire, incrementando quindi paradossalmente le dimensioni della vulnerabilità. La scala di distruzione di cui è capace un esercito ben organizzato e tecnicamente attrezzato è del tutto incomparabile rispetto a quella di un singolo. Lo ha messo recentemente in scena in forme particolarmente efficaci quel potente film che è Oppenheimer; ma guardandolo molti avranno ricordato un altro film, completamente diverso ma non meno suggestivo: Il dottor Stranamore.
Vivere vulnerabili: l’approccio securitario
Come vivere allora questa condizione che sempre più scopre nella vulnerabilità – nei confronti della natura e di altri soggetti umani – una componente costitutiva? Mi pare che questo sia oggi un interrogativo morale fondamentale per il senso che intendiamo dare alla nostra convivenza, in una società in cui le relazioni sono ormai globali.
Una possibilità purtroppo assai diffusa è quella strategia securitaria che acutamente consapevole della propria vulnerabilità – mira soprattutto ad esorcizzarla, costruendo muri sempre più alti. Che si tratti di muri fisici o metaforici, chiaro è lo scopo: difendersi dalle minacce e anzi prevenirle, a qualunque costo. In tale prospettiva è la stessa presenza dell’alterità ad essere sempre in qualche misura potenziale minaccia al mio essere vulnerabile; essa va quindi tenuta lontana respingendola; l’imperativo morale è immunizzarsi e difendersi contro di essa, anche con la forza. Organico a tale prospettiva è lo slogan – spesso utilizzato per giustificare azioni di guerra o magari anche solo per sostenere iniziative legislative – “la difesa è sempre legittima”. Facile comprendere, però, che – specie in assenza di un’adeguata delimitazione di cosa si intenda per difesa – tale prospettiva generi, in effetti, un incremento incontrollabile della violenza, favorendo logiche di escalation potenzialmente infinite. Se, infatti, è l’altro in quanto tale ad essere sempre minaccioso, ogni azione – inclusa la sua eliminazione – potrà essere considerata difensiva e quindi in quanto tale lecita.
Se però le sue conclusioni rivelano quanto eticamente inaccettabile sia tale prospettiva, ciò evidenzia anche ulteriormente la parzialità dell’argomentazione della sezione precedente. Comprendiamo, infatti, che la sola percezione della propria vulnerabilità è moralmente ambivalente e lo è in realtà anche la percezione empatica di quella altrui. Quanta filmografia ha giocato con figure così sensibili al dolore da trasformarsi in torturatori efficacissimi, pronti ad infliggerlo in modo efficace e competente alle loro vittime (ricordo – e rabbrividisco – il dentista de Il maratoneta).
Vivere vulnerabili: Gesù di Nazareth
Occorre allora cercare riferimenti diversi ed un’alternativa è quella che può essere colta guardando alla figura di Gesù. Attenzione, non intendo con questo rivendicare un’esclusiva cristiana per tale prospettiva, ma solo coglierla a partire dalla concretezza di un’icona di particolare intensità. È questa, del resto, la stessa strategia concettuale usata da papa Francesco in Fratelli Tutti nel momento in cui nel capitolo II prendeva le mosse dalla parabola del Samaritano, non in quanto testo ispirato, ma nella sua capacità di ispirare pensiero.
La tradizione cristiana ha sempre visto in Gesù un uomo ben conscio della propria vulnerabilità («uomo dei dolori che ben conosce il patire», Is. 53, 3), ma che non per questo teme di esporsi alla violenza per porsi a servizio alla vita. Importante piuttosto sottolineare qui che, quando parlo di tale servizio, non intendo riferirmi al modello di redenzione abitualmente associato all’opera di Anselmo d’Aosta, ancora fin troppo presente nell’immaginario religioso. Non mi riferisco, cioè, all’idea di un Figlio che intenzionalmente morrebbe per pagare il debito dell’umanità nei confronti di un Dio il cui onore sarebbe stato violato dal peccato di Adamo. È questo un modello spesso usato per orientare ad un’etica doloristica da cui oggi ci sentiamo profondamente lontani; Elizabeth Johnson ne ha messo in luce tutta la problematicità nel suo splendido Il creato e la croce.
Interessa piuttosto cogliere il senso di tale esposizione alla violenza a partire dalle parole pronunciate dallo stesso Gesù nelle prime battute della storia di Lazzaro, quale viene presentata in Gv 11, 7-9. Dinanzi alla malattia dell’amico, infatti, egli si dirige decisamente in Giudea, benché i discepoli gli avessero appena fatto notare che là avevano appena cercato di lapidarlo. Lapidaria è la risposta che egli ad essi indirizza: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo».
Il tempo del giorno – il tempo della vita donataci – non è dato per rifugiarsi in facili sicurezze, ma per luminose opere di vita, in un coraggioso servizio per altri che non teme di esporsi.
Ma c’è di più; rileggendo la storia di Gesù, così si esprime la lettera agli Ebrei: «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb. 5, 8-9). Scopriamo qui che l’esposizione alla violenza viene addirittura legata alla storia di Dio con l’umanità: è una persona divina che – immergendosi nell’umana corporeità – si fa patica. Questo dice del resto il Prologo di Giovanni: o logos sarx egeneto, il Verbo di Dio si è fatto carne (Gv. 1, 14); e tale termine nel vocabolario biblico dice di una dimensione di concretezza vitale, ma anche di fragilità. Gesù vive quindi una dinamica di apprendimento nella vulnerabilità e proprio essa per la lettera agli Ebrei fa di Gesù un riferimento salvifico – una figura rilevante per cogliervi uno stile di vita autenticamente umano. Come direbbe Dietrich Bonhoeffer, solo un Dio che soffre ci può salvare.
Ma come ed in che senso ci salva? Come ed in che senso il riferimento a lui ci orienta ad un modo buono di essere uomini e donne? Non c’è solo l’apprendimento dell’empatia; già notavamo che anche il sadico è empatico, conosce il dolore e gode nel farlo provare ad altri. La storia di Gesù rimanda piuttosto ad una compassione che condivide e ascolta il lamento di chi è ferito / delle vittime, ma si lascia anche pure interpellare da esso: sull’obbedienza a quella che il teologo austriaco Johann Baptist Metz – scomparso da un paio d’anni – chiamerebbe l’autorità del sofferente.
È quanto Emmanuel Levinas coglieva nell’appello che viene dalla nudità del volto d’altri; in quel “non uccidermi” che si ribalta in un “fammi vivere”. Ed un teologo-filosofo come Armido Rizzi sottolineava – commentando la parabola del Samaritano – che in essa l’appello giunge da una realtà che non è nemmeno un volto, ma al più un lamento o forse probabilmente semplicemente una carne vulnerata. Lo stesso Rizzi notava come qui è la cura per chi è stato ferito a fare la differenza in ordine all’essere pienamente umani. È una questione di sguardo: imparare a percepire l’altro non come minaccia, ma come essere di bisogno, quale anche io sono. È quella capacità di entrare nella mente dell’altro sintonizzandosi con essa che si esprime anche nella Regola d’Oro.
La vulnerabilità diviene, dunque, eticamente significativa, nel momento in cui viene percepita come realtà condivisa, come una breccia attraverso la quale ci si lascia toccare dall’altro, rinunciando alle facili strategie securitarie, per rendersi disponibili alla cura. Viene in mente l’esperienza di Francesco d’Assisi che vive tale esperienza in modo forte nel rapporto con i malati di lebbra, percepiti come figure paradigmatiche di prossimità pericolosa.
Vulnerabilità globale
Il percorso che desidero proporre termina con un ultimo passaggio – ultimo, ma tutt’altro che opzionale. Vorrei prendere le mosse dal n. 49 dell’Enciclica Laudato Si’, che intreccia l’invito all’ascolto del grido del povero (del fragile – di ogni umano nel suo essere fragile) con quello ad ascoltare il grido della terra. E tale istanza risuona anche in altri passaggi dell’Enciclica: “fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22) (n. 2); “voglio ricordare che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione».” (n. 89).
Come una mutilazione, viviamo oggi l’esperienza di un pianeta esso stesso vulnerabile: una realtà inedita, certo ignota alla possente natura leopardiana, ma che oggi è costitutiva del nostro essere figli dell’Antropocène. Scopriamo così un’ulteriore paradossale dimensione della nostra condizione: siamo vulnerabili allo squilibrio di un pianeta che è a sua volta a noi vulnerabile. Tale esperienza globale di vulnerabilità condivisa spiazza ogni strategia securitaria parziale; di fronte ad una simile distretta pensare di uscirne da soli non è solo egoismo (per riprendere Don Milani), ma è anche follia ed impossibilità. L’Antropocène domanda in tal senso un investimento etico davvero forte, in cui la comune esperienza di vulnerabilità condivisa si intrecci con l’indicazione della buona vita possibile che tecnica e azione cooperativa ci permettono oggi di plasmare anche su scala globale. C’è bisogno, dunque, di un discernimento e di una creatività che si lascino orientare da quella responsabilità per il futuro della vita che ha trovato espressione, ad esempio, nell’assunzione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile da parte delle Nazioni Unite.
In tale prospettiva appare in una luce diversa anche la guerra in questa fase storica: per usare un’altra metafora (attingendo all’immaginario fantasy), è come il combattimento tra due possenti guerrieri su un fragile ponte sovrastante un baratro: la vera domanda non è “chi vincerà?”, ma “fino a quando potrà reggere il ponte?”.
È questo, del resto, nella sua sostanza il richiamo lanciato nel 1963 da Giovanni XXIII con l’Enciclica Pacem in Terris: in un tempo di vulnerabilità globale la guerra è ormai strumento alienum a ratione. Appare al contempo in modo più chiaro anche il senso di una scelta non violenta: si tratta di sopportare la violenza d’altri, sospendendo la reazione, per cercare di spezzare la catena dell’odio e la sua distruttività devastante. Certo, il limite di tale scelta appare chiaro nel momento in cui anche altri sono esposti alla violenza dell’aggressore; non si tratta però di abbandonarla, ma di rimodulare a partire da essa un’etica ed una politica che consentano spazi di vita possibile, sulla terra splendida e minacciata che ci è donata.
Conclusioni
Il nostro percorso ci ha orientato a cogliere nella vulnerabilità un’esperienza dalla forte rilevanza etica, ma non ancora forse una fondazione di per sé sufficiente per un orizzonte etico complessivo. La mia vulnerabilità, il mio diritto ad essere tutelato nella mia integrità prendono senso morale se posti in efficace risonanza con la vulnerabilità ed il diritto dell’altro/a, degli altri/e, della famiglia umana tutta, nel suo condividere un pianeta esso stesso vulnerabile.
Qui – in una meditata presa in carico, moralmente qualificata, di tale condizione – si innesta la possibilità di un fecondo contributo etico alla condizione di una famiglia umana che mai è stata così vulnerabile e mai così distratta nei confronti di tale propria problematica condizione.
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