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“La violenza, nell’immaginario collettivo, è associata all’intenzione di arrecare deliberatamente danno a un’altra persona. Tuttavia, ritengo che gli operatori sanitari italiani e siciliani in particolar modo, difficilmente abbiano questa volontà. Nel caso in cui si verificassero episodi di questo tipo, sarebbe chiaramente una questione distinta e da affrontare separatamente”.
Con Antonio Maiorana, direttore dell’Unità di ginecologia e ostetricia dell’ospedale Arnas Civico e consigliere dell’Ordine dei Medici di Palermo, affrontiamo un tema delicato e complesso: la “violenza ostetrica”. Questo termine si riferisce agli abusi e ai maltrattamenti che le donne possono subire durante la gravidanza e nel corso di procedure ostetriche, come: l’induzione del travaglio, l’episiotomia, parto cesareo, esplorazioni vaginali realizzate senza consenso, manovre di Kristeller o interventi dolorosi eseguiti senza anestesia.
Negli ultimi anni, il tema è diventato centrale nel dibattito pubblico, sollevando interrogativi su come migliorare l’esperienza delle donne nei percorsi di cura e assistenza.
“La violenza ostetrica può assumere diverse forme, come l’esecuzione di procedure non necessarie o non autorizzate, la violazione della privacy o una comunicazione inadeguata nei momenti critici – spiega Maiorana -. Spesso, questi episodi non derivano da intenzioni malevole, ma sono piuttosto il risultato di contesti di emergenza o di difficoltà organizzative. La percezione della violenza, inoltre, è spesso duplice: da un lato, la paziente può sentirsi trascurata o costretta, mentre dall’altro il medico si trova a operare in situazioni cliniche complesse, che richiedono decisioni rapide e risolute“.
Inoltre, esistono differenze culturali e geografiche significative nella percezione e manifestazione di questo problema.
“In alcune culture, pratiche considerate invasive in Italia potrebbero essere percepite come standard, mentre in altre si pone molta più enfasi sull’autonomia della paziente. Queste differenze richiedono una sensibilità particolare da parte del personale sanitario”.
Forme di violenza ostetrica
Nel 2014, l’OMS, attraverso lo statement “La prevenzione e l’eliminazione della mancanza di rispetto e degli abusi durante il travaglio e il parto presso le strutture sanitarie”, ha fornito un importante chiarimento, identificando e classificando le diverse forme di violenza ostetrica in cinque categorie principali:
Nel 2019, il Consiglio d’Europa, con la Risoluzione n. 2306/2019, ha riconosciuto la violenza ostetrica e ginecologica come violenza contro le donne, in linea con la Convenzione di Istanbul.
Aspetti medici e formativi
Per Maiorana, il fenomeno della violenza ostetrica è spesso riconducibile a lacune nella formazione del personale sanitario.
“Nella preparazione degli specializzandi, manca frequentemente un focus sulla comunicazione e sull’empatia. Il rispetto per la dignità della paziente deve essere un pilastro della formazione, al pari delle competenze tecniche – sottolinea -. Un elemento chiave è il consenso informato, che deve essere chiaro, dettagliato e adattato alle circostanze. Non basta una firma su un modulo. È indispensabile spiegare, in modo semplice e comprensibile, ciò che si sta per fare”.
Queste lacune nella formazione si intrecciano con le responsabilità etiche e legali del personale sanitario, che sono molteplici e complesse.
“Ogni operatore ha il dovere di garantire la sicurezza e il benessere della paziente e del nascituro, rispettandone al contempo le scelte della donna – evidenzia -. Tuttavia, nelle emergenze, dove il tempo per spiegare nel dettaglio ogni procedura può essere estremamente limitato. In tali circostanze, è fondamentale agire rapidamente per tutelare la vita della madre e del bambino”.
L’importanza del dialogo
“Molti episodi che vengono percepiti come violenza, quindi, sono in realtà frutto di incomprensioni o di una comunicazione inadeguata. È essenziale che il personale sanitario si fermi, anche in situazioni di pressione, per ascoltare davvero le parole, i dubbi e le paure delle pazienti”, ribadisce.
“Il medico deve sempre prestare attenzione ai segnali che la paziente invia, siano essi verbali o non verbali – sottolinea Maiorana -. Un’espressione di disagio, un gesto o anche una domanda implicita possono rivelare molto. Questi segnali contengono spesso informazioni preziose per comprendere le reali necessità e preoccupazioni delle donne. Ignorarli può portare a fraintendimenti che non solo complicano la gestione clinica, ma minano profondamente il rapporto di fiducia tra medico e paziente. Inoltre, Ogni paziente ha una sensibilità diversa, e il medico deve saper calibrare il proprio approccio, dimostrando flessibilità e una sincera volontà di comprendere il punto di vista della donna”.
Best practices
“Per cercare di minimizzare il fenomeno, è fondamentale discutere i casi in team, analizzando gli episodi con un approccio collaborativo e costruttivo – aggiunge -. Raccogliere e valorizzare le esperienze delle pazienti rappresenta un passaggio cruciale per rendere il sistema sanitario più umano e inclusivo. Le storie delle donne non devono essere percepite come semplici lamentele, ma come preziose opportunità per apprendere e migliorare. Ogni esperienza, anche quella negativa, può diventare una lezione che ci aiuta a costruire un’assistenza più empatica, rispettosa e centrata sulla persona”.
“Questo significa creare un sistema sanitario più umanizzato, ma è fondamentale investire sulla formazione, sia di tecniche salva vite, ma anche di comunicazione. È, inoltre, essenziale rendere le strutture adeguate e attuare protocolli centrati sulla paziente, affinché ogni donna si senta rispettata e al sicuro – conclude -. Queste azioni non solo ridurranno gli episodi percepiti come violenza ostetrica, ma trasformeranno l’esperienza del parto in un momento straordinario e ricco di significato. Dare alla luce un figlio non è solo un evento medico, ma un’esperienza profondamente umana, che merita di essere vissuta con dignità, serenità e bellezza, valorizzando la forza e il ruolo unico della donna“.
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