Suscitano clamore ma non sono rarissime, giornate come quelle di ieri nella storia delle cosiddette seconda e terza Repubblica. Diciamo anzi che capitano con una certa regolarità, se non proprio in ogni legislatura. Giornate in cui non sembrano 33 gli anni che ci separano temporalmente da Tangentopoli. E in cui si capisce meglio il significato dell’obbligatorietà dell’azione penale che caratterizza il nostro ordinamento giudiziario: si presenta una denuncia in cui si attribuisce a qualcuno o a ignoti la commissione di uno o più presunti reati e, se non si tratta proprio di carta straccia destinata al cestino, la Procura della Repubblica aprirà un fascicolo d’indagine. È andata così anche stavolta, con il risultato che la denuncia presentata negli uffici giudiziari di Roma da un penalista esperto e di lunghissimo corso come Luigi Li Gotti (detto per inciso: con una storia personale non esattamente “di sinistra”, come invece affermato da Giorgia Meloni) sull’opaca gestione del caso Almasri ha prodotto l’iscrizione sul registro degli indagati della presidente del Consiglio, del sottosegretario a Palazzo Chigi e dei ministri dell’Interno e della Giustizia. Praticamente mezzo governo, non numericamente ma per importanza di ruoli e funzioni.
La magistratura, nella sua autonomia e indipendenza, stabilirà se davvero sussistono gli ipotizzati reati di favoreggiamento (di un ricercato dalla Corte penale internazionale) e peculato (per averlo rimpatriato con un aereo di Stato). Ma è evidente il rischio, ora, di alimentare la confusione intorno a una vicenda sulla quale invece bisognerebbe pretendere, e fare, la massima chiarezza. Perché l’apertura di un’inchiesta così deflagrante, in primo luogo per i nomi coinvolti, arriva in uno dei momenti di più alta tensione (niente affatto rari, anche questi, dal 1992 a oggi) nei rapporti tra il potere esecutivo e l’ordine giudiziario. Perché proprio nello scorso fine settimana, in Cassazione e nelle Corti d’appello, l’inaugurazione dell’anno giudiziario si è rivelata impregnata di quella tensione, fin nelle virgole degli interventi istituzionali e nella protesta delle toghe con il Tricolore al bavero e la Costituzione in mano. Perché la notizia è arrivata proprio alla vigilia delle informative “urgenti” alle Camere – le virgolette sono davvero d’obbligo – dei ministro Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, entrambi indagati insieme a Meloni e ad Alfredo Mantovano, sulla strana storia del capo della polizia giudiziaria libico arrestato a Torino il 19 gennaio, rilasciato due giorni dopo e riaccompagnato a Tripoli a bordo di un Falcon 900 in uso ai nostri servizi di intelligence.
Non a caso la premier ha reso noto lei, con un video, di aver ricevuto l’avviso di garanzia, sottolineando il passato di Li Gotti come legale di «mafiosi» (in realtà “pentiti”, uno su tutti Tommaso Buscetta) e i suoi trascorsi in Parlamento con il partito di Antonio Di Pietro, già pm simbolo di Mani Pulite, e ricordando che l’attuale procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi sostenne la pubblica accusa a Palermo a carico di Matteo Salvini nel processo Open Arms. Strategia comunicativa comprensibile, quella di Meloni, che ha preferito dare la sua versione prima e non dopo quella di chi l’accusa. Ora, inevitabilmente, a destra si grida all’ «attacco al Governo» da parte di una magistratura che reagirebbe così alla contestata riforma sulla separazione della carriere. E a sinistra si taccia la presidente del Consiglio di «vittimismo» e di incapacità di mettere la faccia in questa complicata e malgestita faccenda.
Fatto sta che il livello dello scontro già in atto è salito così ancora di un grado e chissà se, quando e come si riuscirà a ricondurre i rapporti all’interno di dinamiche istituzionali meno intossicate di quelle descritte quotidianamente dalle cronache. Il fatto che si siano già viste, infatti, non è un buon motivo per non sperare di vederle archiviate una volta per tutte. Aiuterebbe, forse, se si evitasse finalmente di sovrapporre le responsabilità penali a quelle politiche. Con il rischio concreto, una volta esaurito lo scalpore del momento, di non riuscire a venire a capo né delle une né delle altre.
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