Professore emerito dell’Università di Firenze dal 2016, Alessandro Petretto, già professore ordinario di economia pubblica a Firenze, ha insegnato anche all’Università Bocconi di Milano. E’ stato presidente della Commissione tecnica per la spesa pubblica del Ministero del Tesoro, membro del Comitato scientifico dell’Ufficio parlamentare del Bilancio, assessore al bilancio e partecipate del Comune di Firenze. Ha collaborato con Arera come consulente di parte. Ha pubblicato numerosi articoli scientifici e libri in materia di servizi pubblici, nel 2023 il manuale per Mac Graw Ill “Economia della legge e dei servizi pubblici”.
Il professor Petretto è stato intervistato da Luciano Pallini per il sito online “SoloRiformisti”. Nell’intervista, Pallini ricostruisce le vicende economiche dal dopoguerra a metà anni Settanta del secolo scorso (Trenta gloriosi) ai nodi irrisolti dell’oggi.
di Luciano Pallini
“Les Trente Glorieuses”: quali i fattori che hanno prodotto trent’anni di crescita quasi ininterrotta (o così sembra a leggerli da lontano nel tempo)? Ed i progressi di questa crescita come si sono distribuiti?
Per crescita si intende di solito l’incremento nel tempo del PIL pro-capite anche se l’indicatore andrebbe completato con elementi di sostenibilità, non contemplati nel giudizio su Les Trente Glorieuses. Comunque la crescita rapida del PIL/POP è un fenomeno recente della storia ed è sicuramente associato all’apertura degli stati e allo sviluppo degli scambi tra economie, la così detta globalizzazione. I motori dello sviluppo sono stati prevalentemente, come insegna la teoria, la crescita della forza lavoro, l’accumulazione del capitale e il progresso tecnico, che può essere stato sia labor-intensive che capital-intensive o neutrale rispetto ai due fattori produttivi combinati (la PTF).
E quali avvenimenti hanno portato alla fine di questo miracolo economico, a livello internazionale ed in Italia?
Altri fattori della crescita, denominati di contesto, sono stati rilevanti: la qualità del capitale umano, quindi il livello di istruzione e della speranza di vita, il buon funzionamento dei mercati, il grado di concorrenza (limitando le distorsioni introdotte dallo stato, e la corruzione), la stabilità economica (equilibiro macoeconomico e dei prezzi), la stabilità politica ma con l’alternanza democratica tra i partiti al governo. La fine dell’”età dell’oro” può essere associata al minore e diverso effetto di questi fattori istituzionali. L’Italia è certamente emblematica sotto questo profilo con l’indebolimento dei meccanismi della concorrenza e dell’effetto trainante della buona politica, dopo gli anni del boom. Da noi gli elementi critici di natura istituzionale hanno generato una classe politica essenzialamente miope cui si deve la crescita incontrollata del debito pubblco, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso.
I cattivi, cui viene addossata la responsabilità di aver cacciato l’umanità da questo paradiso, Tatcher e Reagan, a quali difficoltà cercavano di trovare alternative e quali le soluzioni che hanno imposto?
La relazione tra crescita e disuguaglianza non è stabile nel tempo e nello spazio. I due fenomeni concomitanti – il rallentamento dello sviluppo delle economie industrializzate e la convergenza di solo alcuni paesi arretrati verso i più avanzati, con alcuni rimasti ai margini della crescita mondiale – ha prodotto disuguaglianze di reddito tra paesi. In effetti, sono diminuite nel corso degli anni 90 (grazie ad alcuni paesi come Cina e India). Ma queste sono ri-aumentate negli anni della «Grande recessione» del 2008 e della crisi dei debiti sovrani del 2012-2013, della crisi pandemica ed energetica, malgrado un intervento pubblico redistributivo a livello globale. Il progresso tecnologico ha acuito le disuguaglianze di reddito all’interno dei paesi industrializzati, conseguente alla distruzione “creatrice delle imprese manifatturiere”, aumentando il tasso di disoccupazione e riducendo il salario relativo dei lavoratori meno qualificati. Rispetto all’età dell’oro lo sviluppo teconologico non si è accompagnato ad un ruolo altrettanto attivo della forza lavoro, per effetto della crisi demografica, e dell’accumulazione del capitale fisico e immateriale a causa della crescita abnorme dell’impiego del risparmio in prodotti finanziari speculativi e soprattuto in titoli di stato incentivati dalla crescita del debito pubblico, invece che nelle imprese.
Nel 1989 poi cade il muro di Berlino, nel 1991 si disintegra l’Unione Sovietica, progredisce l’Unione europea con la creazione dell’euro, si aprono alla Cina le porte del mercato mondiale: ma l’attentato alle Torri gemelle demolisce l’illusione della pace mondiale, che ormai sarebbero stati solo giorni del vino e delle rose. In questo contesto operano due leader progressisti come Bill Clinton e Tony Blair: quali erano i loro obiettivi, quali i loro risultati e quale eredità della stagione del progressismo ottimista hanno lasciato?
L’effetto della politica nello stop alla crescita globale è filtrato dalle domande con riferimento ai grandi sviluppi della geopolitica mondiale degli ultimi trent’anni (caduta del Muro e dell’URSS) e all’insorgere del terrorismo globale (dalle Torri gemelle), al ruolo della Thatcher e Reagan, e all’apparizione temporanea di due figure della nuova sinistra come Blair e Clinton. I primi due campioni del libero mercato hanno operato in concomitanza con la rivoluzione teorica della nuova macroeconomia classica (con autori quali Lucas, Phelps, Sargant, Wallace, Fisher ed altri) che si contrapponeva all’interpretazione “ingenua” dei keynesiani messianici sull’efficacia della politica economica, soprattutto della spesa pubblica in disavanzo. E’ stata una salutare sterzata, se pur non priva di contraddizioni, poi emerse. A superare le quali, pur mantenendo la linea di selettiva e meditata correzione del funzionamento dei mercati, hanno operato i due “socialdemocratici” Blair e Clinton. Contro di loro hanno poi prevalso le spinte massimaliste della sinistra sindacale e tradizionale, con l’abiura di un esperimento politico (la “terza via”) che meritava consolidare.
La globalizzazione: le speranze di un mondo migliore erano affidate al commercio internazionale, alla crescita che avrebbe beneficiato tutti: è in effetti una grande massi di persone è uscita dalla situazione di povertà, ma la globalizzazione ha creato anche i perdenti, soprattutto nei paesi occidentali con la deindustrializzazione. Quali sono i costi che si pagheranno con il ritorno del protezionismo, personificato nel ritorno di Trump alla Casa Bianca? Quali sono i vantaggi che garantisce, quali i costi e i perdenti del protezionismo?
La difficoltà della globalizzazione non va accolta come una salutare liberazione dal mercato come ritengono le impostazioni politiche solo apparentemente opposte, come la sinistra all’insoumise francese, la destra trumpiana e la destra europea sovranista. La rottura delle catene mondiali del valore e l’arroccamento degli stati dietro l’impiego di dazi all’importazione portano alla lunga solo sciagure. In una recente intervista, il commissario europeo all’Economia Dombrovskis ha ricordato come il rapporto commerciale tra UE e USA sia il più ampio del mondo e valga il 42% del PIL globale. In caso di frammentazione dell’economia globale, che deriverebbe da una guerra commerciale con i dazi che porterebbe a concentrare tutti gli scambi all’interno dei blocchi geopolitici (USA, UE e Cina), si stima una perdita del 7% del PIL mondiale. Per quanto ci riguarda, a fronte dei guadagni di alcuni produttori nazionali si riscontrerebe un aumento dei prezzi interni a danno dei consumatori, ora che l’inflazione è sotto controllo.
I teorici della decrescita felice pare si siano affermati, soprattutto o quasi esclusivamente in Europa: tra vincoli di ogni genere, la crescita zero non pare un problema e tutto si riduce ad un problema di redistribuzione, sulle ali di Piketty. Ma si ritiene che la riduzione delle disuguaglianze sia un obiettivo per la felicità delle persone, e che lo sia tagliando ai privilegiati per dare ai poveri in una guerra dagli esiti incerti? O che piuttosto lo sia, in un contesto di crescita, l’aumento delle retribuzioni dei lavoratori, a prescindere dall’andamento della disuguaglianza?
La decrescita felice è sotto il profilo economico una colossale sciocchezza. Enumerate gli indicatori che valorizzano l’Indice di sviluppo umano di Amartja Sen e verificate quanti possono aumentare con un PIL stagnante o in caduta. La gran parte dipende dalla spesa pubblica (salute, istruzione, mobilità e ambiente) che deve essere finanziata dalla tassazione legata direttamente o indirettamente al reddito distribuito, a meno che non si abbia a cuore solo la felicità delle generazioni presenti, scaricando il debito sulle successive. La stessa considerazione vale per le politiche redistribuive alla Piketty; i grandi studiosi della tassazione ottima come Miirlees e Diamond, per non scomodare i grandi del passato come Einaudi, hanno sempre avvertito che tassare i ricchi per dare ai poveri, senza produzione di reddito, può essere affascinante ma spesso non conveniente, perché i primi se ne vanno mentre i secondi restano. Il recente premio Nobel Daron Acemoglu, il più grande studioso dei modelli di sviluppo, ha mostrato come la redistribuzione è fondamentale si faccia a monte, cioè aumentando l’occupazione, la produttività e quindi salari, senza forzare eccessivamente il sistema tributario.
E per far ripartire la crescita cosa serve? Quale il ruolo degli individui e quale il compito e le responsabilità dello stato?
Che fare? Limitandosi a casa nostra, la via è stata tracciata dall’Europa. Le riforme che ci ha richiesto negli anni (Patto di stabilità e crescita, PNRR e allungamento a 7 anni del rientro dal debito secondo il Piano strutturale di bilancio) vanno finalmente fatte, senza giocare più a “facite ammuina”, con promesse non mantenute, norme fumose e giochetti vari, resi possibili da accordi politico-elettorali di basso profilo. Ricerche recenti della Banca d’Italia e del FMI hanno mostrato come la crescita del PIL potenziale potrebbe innalzarsi oltre il 3% rispetto alla baseline solo efficientando la Pubblica amministrazione, e riducendo la durata delle cause civili. Il fisco poi dovrebbe realmente essere riformato spostando il carico dalla remunerazione dei fattori produttivi (es. lavoro e capitale proprio) alle rendite (es. riforma del catasto). Il sistema economico dovrebbe infine recuperare un adeguato livello di concorrenza in tutti i settori, dai servizi pubblici all’industria. E si potrebbe continuare…. Qualcuno, ora ben situato al coperto, certamente sarebbe colpito dalle riforme ma bisogna ricordare che l’inazione non è neutrale, se non altro perché colpisce i giovani e le generazioni a venire.
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