Diciassette persone – tra Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Campania e Calabria – sono indagate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze per le accuse, a vario titolo, di associazione per delinquere, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, indebite compensazioni, riciclaggio.
Stamani, così, in sei sono finite in carcere, una è stata invece posta ai domiciliari mentre le altre dieci sono state interdette dagli uffici direttivi di persone giuridiche e imprese; contestualmente Polizia e Guardia di Finanza stanno anche procedendo al sequestro di beni e disponibilità finanziarie fino all’ammontare di circa 30milioni di euro.
Contestualmente a Napoli, Salerno, Roma, Bologna, Venezia e Vicenza sono in corso di esecuzione cinquanta perquisizioni locali e personali, allo scopo di ricercare cose ritenute pertinenti ai reati, in particolare denaro contante, beni mobili di valore e materiale documentale.
Le indagini, scattate nel 2021 e durate fino ad oggi, e condotte dal Gico di Firenze e dalla Squadra Mobile di Siena, insieme al Pef di Modena e allo Scico, hanno portato ad ipotizzare l’esistenza di una gruppo criminale, con elementi di contiguità alla camorra napoletana, con interessi in Toscana ma operativa in Campania ed Emilia-Romagna.
L’indagine ha preso le mosse dall’approfondimento della posizione di un commercialista originario di Torre del Greco (nel napoletano), con uno studio a Torre Annunziata e a Poggibonsi (nel senese).
Gli investigatori sostengono quindi poter confermare che il professionista avesse rapporti con dei pregiudicati, anche per mafia, e con un gruppo di soggetti già coinvolti in reati economico-finanziari e vicini ad organizzazioni criminali.
Si sarebbero poi individuare numerose aziende, prevalentemente intestate a presunti prestanomi, attive nel settore della lavorazione delle carni presso i macelli o centri di lavorazione, attraverso cui sarebbe stato operato un sistema di compensazioni indebite e di fatturazioni false.
Inoltre, si sarebbe riscontrata la disponibilità da parte dello stesso gruppo di una rete di circa 600 dipendenti (prevalentemente stranieri e campani) impiegati come manodopera in società sempre riconducibili alle stesse persone.
Infine, sarebbe emersa la capacità del commercialista nel creare società fittizie attraverso cui realizzare profitti illeciti mediante artifici contabili: abilità utilizzata dall’associazione che operava in Toscana.
LE AZIENDE CAPOFILA
Gli approfondimenti successivi, consistiti anche nell’utilizzo dei dati derivanti dall’esecuzione di controlli fiscali, a riscontro di molteplici informazioni tratte dalle conversazioni telefoniche ed ambientali, ricostruirebbero quello che gli investigatori definiscono come un vero “sistema di frode” basato sull’illecito distacco di manodopera, sulle compensazioni indebite per estinguere debiti tributari e sulle cessioni di crediti fiscali inesistenti, oltre che sull’emissione e l’utilizzo di fatture relative ad operazioni economiche inesistenti concatenate, realizzate da società tutte riconducibili alla presunta consorteria criminale e strutturate su tre distinti livelli.
Il primo di questi livelli sarebbe stato costituito dalle cosiddette “capofila”, imprese utilizzate per generare flussi finanziari grazie all’esercizio di una attività lavorativa reale necessaria per garantire uno schermo di “legalità”, così da dissimulare i successivi passaggi finanziari fraudolenti realizzati grazie alla catena di false fatturazioni.
La figura societaria centrale di cui si sono serviti i componenti del sodalizio è un consorzio con sede a Pontedera (nel pisano) che avrebbe agito attraverso le sue consorziate stipulando contratti, leciti, con alcune società anche toscane operanti nel settore delle carni e impiegando complessivamente circa 600 persone.
Sarebbe emerso che, in realtà, le decisioni sull’impiego della manodopera e i rapporti con i soci, i rappresentanti legali e di fatto delle società, i fornitori delle società consorziate fossero centralizzati e facenti capo agli uffici amministrativi del Consorzio stesso.
LE AZIENDE “FILTRO”
Il secondo livello, poi, sarebbe stato costituito da imprese “intermediarie” che, ricoprendo la funzione di vero e proprio “filtro”, avrebbero contribuito a rendere più difficile l’individuazione dei flussi di denaro scaturiti dalle false fatturazioni dirette verso le società consorziate. Si tratta di soggetti caratterizzati da un’operatività sia fittizia che reale.
Il terzo avrebbe visto poi il coinvolgimento di società meramente “cartiere”, caratterizzate da una vita operativa breve (sul modello delle cosiddette “imprese apri e chiudi”), create con il solo fine di emettere fatture false, garantire la monetizzazione in contanti dei flussi finanziari da queste generati e disattendere tutti gli oneri tributari assunti. Queste somme sarebbero state, di volta in volta, affidate a “corrieri” che avrebbero provveduto al loro trasporto principalmente in Toscana e parte dei flussi finanziari derivanti dall’intero sistema di frode sarebbero anche stati canalizzati all’estero, in Cina.
A riscontro della restituzione del denaro ai presunti organizzatori della frode, una volta prelevato principalmente in Campania, sono stati eseguiti diversi sequestri in Toscana, per oltre 430 mila euro, sia nei confronti dei principali indagati che dei sodali con mansioni di “corriere” di valuta; emblematico il caso in cui, nel tentativo di eludere i controlli e di non subire i sequestri, il gruppo abbia persino fatto ricorso ad un dipendente di una società di servizi a bordo treno.
LO SNODO CENTRALE
Inoltre, parte del denaro derivante dagli illeciti sarebbe stato destinato o direttamente ad affiliati ai clan di Camorra di Ponticelli, detenuti nel carcere di Poggioreale, o a loro parenti, affini e conoscenti, e ad altri clan del casertano.
Sarebbe dunque emerso che il Consorzio e le proprie Consorziate abbiano rappresentato lo snodo centrale di una lunga catena di fatturazione fittizia ad opera di società cartiere, disseminate su tutto il territorio nazionale, ricollegabili sempre ai membri del Consorzio ed utilizzate all’unico scopo di evadere le imposte, stimate complessivamente in oltre 28 milioni di euro, e infine monetizzare i proventi provenienti dalle false fatturazioni anche attraverso il riciclaggio, per circa 2 milioni di euro.
Parallelamente, è stato rilevato che, al pari del presunto sistema di frode delle false fatturazioni, attraverso le stesse società, o altre compiacenti o di fatto gestite dalla compagine delinquenziale, sia stata attuata una sistematica cessione e compensazione di crediti inesistenti stimati in circa 2 milioni di euro, creati artatamente e in parte relativi a costi di “ricerca e sviluppo e innovazione tecnologica 4.0” mai realmente sostenuti.
Li inquirenti riferiscono come emblematico sia il caso di una società nel settore della lavorazione delle carni i cui dipendenti, circa 180, con domicili in varie zone d’Italia, siano transitati da una Srls all’altra, che mai hanno presentato dichiarazioni ai fini Iva, pur avendo emesso e ricevuto una serie di fatture; e che abbiano compensato tributi Inps per 250 mila euro con un credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo, in verità fittizio.
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