Della passione e l’esperienza nel creare format food retail scalabili, Sal Costa Pasqualino ha fatto una professione ora distillata in SCP Food Consulatant. Un osservatorio da cui guardare al mercato della ristorazione a catena e alle sue numerose sfide: dall’immobiliare al digitale, dal personale all’attrazione di capitali passando per la scelta delle merceologia promettente su cui scommettere. Con l’accortezza che il futuro del settore sta “nella sostenibilità, nell’autenticità e nella scalabilità intelligente”, afferma il consulente ai microfoni di RM. L’obiettivo? “Creare concept che uniscano tradizione e innovazione, capaci di portare l’esperienza italiana in ogni angolo del mondo, sempre con lo stesso calore e passione e senza paura dei fallimenti”.
L’intervista a Sal Costa Pasqualino (SCP Food Consultant).
Di cosa si occupa SCP Food Consultant e su cosa state lavorando ora?
È una realtà nata più di 20 anni fa. La mission è supportare founder e re-founder nel trasformare le loro idee in progetti di catena con un’identità forte, replicabile e autenticamente italiana. L’obiettivo è quello di portare l’ospitalità italiana nel mondo, traducendo esperienze locali in successi globali. La struttura si appoggia a un network di manager freelance, una decina di profili, a cui si aggiunge un team interno di 4 persone. Sono sempre più convinto che il nostro settore abbia davanti a sé un’opportunità straordinaria: quella di creare valore reale per le nuove generazioni di founder ed esportare l’eccellenza italiana. Ma per farlo, serve un ecosistema che unisca i diversi attori del segmento e che sia in grado di supportare non solo i grandi brand ma anche quelle piccole realtà locali di provincia che possono diventare il punto di partenza di uno sviluppo più armonico e sostenibile: la provincia è la vera frontiera del food retail, qui possono crescere esperienze imprenditoriali davvero interessanti, soprattutto da franchising strutturati (Mumbo, ndr). In questo contesto, per esempio, si inserisce il progetto di brand basket insieme ad Andrea Meschia di 3io/Affylia: un’idea che punta a creare sinergie tra i brand italiani della ristorazione, aiutandoli a presentarsi insieme sui mercati internazionali con piani di sviluppo condivisi. Collaborazione è la parola chiave, non solo tra i brand, ma anche all’interno delle aziende stesse. Da qui, il mio impegno per promuovere progetti di formazione interaziendali dedicati agli store manager, perché sono loro i veri protagonisti del successo operativo e culturale delle catene di domani.
Prima di quest’ultima sfida, una serie di progetti e scommesse vinte. Ce ne racconta qualcuna?
Nasco come manager nel farmaceutico e nel finanziario. Poi ho avuto il privilegio di supportare progetti straordinari sin dalle loro fasi iniziali. Ad esempio, ho collaborato con Chipotle negli Stati Uniti, sostenendo le prime fasi della sua nascita fino alla joint venture con McDonald’s. In Italia, ho lavorato con il Gruppo Percassi, contribuendo alla creazione del progetto 30Polenta e alla nascita del nuovo comparto del food retail con Locanda Maioli, evoluta poi nel progetto Casa Maioli. Nello stesso periodo ho avuto l’onore di partecipare all’introduzione del progetto Starbucks in Italia. Un’altra bellissima esperienza, che continua dopo oltre dieci anni, è quella di essere al fianco di Elena Bacchini sin dalla nascita di Cà Pelletti. Ho anche contribuito all’ideazione di format innovativi come la Locanda dell’Uovo per il Gruppo Eurovo in Fico a Bologna e sono stato testimone dei primi passi del progetto La Romana con i fratelli Massimiliano e Ivano Zucchi. Ho supportato il progetto Pascucci Caffè per l’espansione in alcuni mercati esteri. Tra i miei ricordi più formativi, c’è l’esperienza in McDonald’s Italia con Moretti Forni per la sperimentazione del progetto McPizza.
Un bagaglio di esperienze utile per affrontare le tematiche che caratterizzano il mercato di oggi. Partiamo dalla prima: l’immobiliare.
Al di là del famoso mantra “location, location, location”, sempre determinante, il Covid ha cambiato i parametri che lo sorreggono. Prima la logica che stava dietro alla scelta di uno spazio era legata ai ricavi. Detto diversamente, una buona location valeva dall’8 al 12% dei ricavi; ramp up escluso. Questo portava a un susseguirsi di aperture per generare ulteriore fatturato, così da permettersi nuove aperture e via dicendo. Post-Covid le cose sono diverse. La necessità di aumentare i coperti e ridurre lo scontrino medio porta verso una scelta di location ad alto flusso ma con volumi di fatturato più bassi. Diventa essenziale, quindi, avere una strategia coerente di sviluppo che permetta di sfruttare la leva finanziaria una volta che tutti i pezzi sono al loro posto e ottimizzati. Per questo, da un lato, vediamo l’affermarsi del fenomeno Mumbo e, dall’altro, cresce il rischio che imprenditori singoli finiscano per non reggere le logiche di uno sviluppo a catena.
Un altro grande tema è quello del digitale. Come declinarlo nel 2025?
Su questo mi sento di dire una cosa un po’ disruptive: la questione non è la quantità di strumenti digitali di cui disponiamo, che forse sono più di quelli di cui abbiamo veramente bisogno, ma la loro integrazione. Questo approccio ancora non si è imposto nel food retail. C’è una rincorsa a soluzioni innovative che, purtroppo, sono spesso la copia l’una dell’altra. Il rischio è quello che viviamo quotidianamente con i nostri smartphone: avere così tante app che alla fine usiamo sempre le solite 10 senza renderci conto, magari, che per le altre paghiamo pure una fee. Questo, per esempio, si nota con la recente diffusione dei kiosk in store: sono utili se riescono a restituire al cliente la stessa user experience delle piattaforme delivery a cui ormai ci siamo abituati, altrimenti diventano solo dei costi aggiuntivi. Tutto questo, infine, dovrebbe farci porre delle domande sull’attività dell’operation manager.
Ciò su cui il food retail ha saputo cambiare marcia rispetto alla ristorazione tradizionale è sicuramente il rapporto con il personale. Concorda nel sostenere che, nonostante la crisi nel fuoricasa, le catene abbiano una marcia in più nell’attrarre e trattenere manodopera?
Sì, la valorizzazione del personale è sicuramente un motivo di vanto per alcune insegne. Tuttavia, dopo aver creato le Academy per chi sta al banco o in cucina, ora serve fare un passo in più e focalizzarci sulla crescita degli store manager e sulle figure intermedie. Una risposta potrebbe arrivare dal mondo associativo d’impresa, se non addirittura dall’università. Quello che va oggi sottolineato è la necessità di favorire una maggiore cultura manageriale a più livelli. Un’accelerazione che gioverebbe ai brand sia verso l’interno, ossia le proprie risorse, sia verso l’esterno, in termini di appetibilità per gli investitori e sviluppatori internazionali.
Per attirare finanziatori, quindi, i Kpi non bastano più?
Al di là di Kpi, labour cost, capex e food&beverage cost bisogna avere chiaro il piano di sviluppo. Non basta guardare alla abitudini di Milano o Roma per garantirsi una crescita di successo. Dobbiamo pensare alla provincia e poi all’estero. Una prospettiva di lungo respiro. Anche dal punto di vista temporale. E quindi di ritorno sull’investimento. Forse negli ultimi anni ci siamo illusi che bastassero 5-7 locali per poi preparare una exit remunerativa. Ma non è così e ci sono grandi gruppi che lo dimostrano, come La Piadineria. Per questo sostengo che sia meglio pensare in grande piuttosto che in piccolo e nel breve periodo. Solo così lo sforzo trova il suo senso. Anche finanziario.
Detto ciò, c’è una merceologia in cui più di altri varrebbe la pena fare un investimento di questo tipo?
Il pesce è un settore interessante. Al di là della tendenza vegetariana, c’è la richiesta di un’alimentazione nutriente e sostenibile. I prodotti ittici possono rispondere a queste due esigenze molto sentite dai giovani, da un lato, attenti ai temi ambientali nel loro complesso, e da una popolazione che sta pian piano invecchiando sempre di più, dall’altro. Dello stesso ragionamento può avvantaggiarsi anche il plant based, che potrebbe rappresentare anche un fattore di riscoperta e rilancio delle ricette tradizionali italiane, come la parmigiana di melanzane con formaggio di origine vegetale.
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