Le opposizioni sono sul piede di guerra e chiedono chiarimenti urgenti all’esecutivo. La CPI striglia l’Italia: “Rilasciato senza preavviso o consultazione”
Un latitante straniero a spasso per l’Italia, l’arresto in albergo dopo una fortuita identificazione a un controllo di polizia, e infine il rilascio a tempi record. Con tanto di rimpatrio a bordo di un “Falcon 900” messo a disposizione dai servizi segreti italiani. A leggere la ricostruzione del caso di Njeem Osama Almasri Habish, il torturatore libico ricercato dalla Corte Penale Internazionale rispedito in Libia in un baleno dopo essere stato fermato a Torino, sembra di tornare alle trame degli anni ’70. In quell’Italia porto di mare dove non di rado transitavano senza troppi problemi terroristi, golpisti, criminali e trafficanti. Quello era il periodo della strategia della tensione, in fondo, e sul passaggio di questi personaggi in suolo italiano spesso si chiudeva un occhio. Nel caso Almasri, invece, l’Italia, anzi l’esecutivo, di occhi ne ha chiusi due. La colpa di questa svista clamorosa il governo la attribuisce a un cavillo giudiziario e a un errore procedurale. Ma è una scusa. Almasri è tornato in Libia perché qualcuno ai piani alti ha voluto così. Altrimenti non si spiegano tutta una serie di circostanze che via via continuano ad emergere dalla vicenda, puntualmente ricostruita nelle carte della corte d’Appello di Roma, che, per l’irreperibilità di Carlo Nordio, non ha potuto convalidare l’arresto del boia tripolino. Ricostruiamo il caso per come lo hanno ricostruito i giudici romani: Almasri era a Torino sabato 18 gennaio per assistere alla partita Juventus-Milan allo Juventus Stadium; qui è stato fermato dalla Polizia per un controllo di routine mentre si trovava in macchina con altri tre connazionali. Il generale sarebbe arrivato in Italia con un’auto noleggiata in Germania che avrebbe voluto riconsegnare a Fiumicino.
Carlo Nordio intervistato in Rai sul Caso Almasri
Ma lo stesso giorno, la CPI ha spiccato il mandato di cattura nei suoi confronti in sei diversi Stati (Italia inclusa) trasmettendo l’informazione anche all’ambasciata italiana all’Aja del suo possibile arrivo nel nostro territorio. Le nostre autorità, quindi, erano al corrente. “La richiesta della Corte è stata trasmessa attraverso i canali designati da ciascuno Stato ed è stata preceduta da consultazioni e coordinamenti preventivi con ciascuno Stato”, ha scritto poi la CPI in una nota in cui ha chiesto spiegazioni del rilascio al governo. Andiamo avanti. Domenica 19 la Digos di Torino è entrata all’hotel dove alloggiava il generale, gli ha messo le manette e lo ha condotto al carcere delle Vallette. Successivamente la polizia ha comunicato all’autorità giudiziaria la richiesta di convalida dell’arresto. “La medesima comunicazione veniva trasmessa il 19.1.2025 al Ministero della Giustizia”, scriverà poi la Corte d’appello di Roma. Domenica 19, pertanto, sulla scrivania di Nordio erano già arrivati due documenti pendenti di massima priorità: il mandato di cattura dell’Aja e la notifica di arresto della Digos di Torino (che era stata inoltrata anche alla corte d’Appello). Entrambe in attesa di essere visionate e convalidate dal ministro, che però non ha dato segni di vita. Eppure l’indicazione del Guardasigilli era indispensabile per la convalida dell’arresto perché – sebbene il fermo sia partito da un’”iniziativa della polizia giudiziaria” e non su input del Ministero della Giustizia (come previsto in questi casi dall’art.2 della legge 237/2012 che disciplina i rapporti tra il ministero della Giustizia e la CPI) – il procedimento doveva “irrinunciabilmente” (specifica la corte d’Appello) passare dal dicastero. Sul punto, infatti, spiega ancora la corte, è al Ministero della Giustizia che “compete di ricevere le richieste provenienti dalla CPI e di darvi seguito”.
Giorgia Meloni
Ed è sempre il ministro della Giustizia a dover trasmettere gli atti alla procura generale presso la corte d’Appello di Roma, la quale può quindi procedere con l’applicazione della misura cautelare. Ma, dicevamo, il ministro non ha mosso un dito per almeno 24 ore, nonostante la procura generale, già lunedì, gli avesse inviato una “comunicazione urgente” sottolineando di essere in attesa di disposizioni. Nel frattempo i funzionari libici, che hanno definito l’arresto “un incidente oltraggioso”, si sono mobilitati in fretta e furia nel contattare il governo di Tripoli per trovare avvocati italiani per la sua difesa e quindi riportare in Libia Almasri. E’ lunedì 20 e ancora Nordio non ha fatto pervenire alcuna disposizione sul fermo alla procura generale, come ha certificato poi la corte d’Appello nell’ordinanza di scarcerazione. L’indomani mattina, intanto, un “Falcon 900”, aereo della presidenza del Consiglio in uso ai servizi segreti, è atterrato a Torino da Roma, su autorizzazione di Palazzo Chigi (che ha la delega ai servizi). Il jet doveva attendere l’eventuale scarcerazione e quindi rimpatriare subito il torturatore ricercato dall’Aja. Nel silenzio del ministero, la Procura generale ha scritto alla Corte d’appello chiedendo “che codesta Corte dichiari la irritualità dell’arresto in quanto non preceduto dalle interlocuzioni con il Ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte Penale”. A quel punto sarebbe bastato che Nordio si manifestasse, anche con una nota, uno scarabocchio, per bloccare l’iter. Ma niente. Così le porte della cella di Almasri si sono aperte per “irritualità dell’arresto”, scrivono i giudici di Roma. Nel pomeriggio del 21 gennaio, il ministero della Giustizia ha emanato finalmente una nota però è troppo tardi: “È pervenuta la richiesta della Corte Penale Internazionale di arresto del cittadino libico Najeem Osema Almasri Habish. Considerato il complesso carteggio, il Ministro sta valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI al Procuratore generale di Roma”.
Matteo Piantedosi
Praticamente Nordio ha preso inutilmente tempo (non sono bastati i quattro giorni di silenzio radio). E appena due ore dopo, alle 18.45, l’aereo di Stato con a bordo Almasri ha preso il volo per la Libia. Ad accoglierlo, una folla in festa che lo ha portato in trionfo con tanto di cori di scherno all’Italia. Oltre il danno, la beffa. Il biglietto è un decreto di espulsione della Questura di Torino firmato dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che gli vieta di rientrare in Italia per i prossimi 15 anni. Insomma, la volontà politica di farlo uscire dall’Italia il prima possibile – e quindi di sottrarlo all’Aja – è più che evidente. Le opposizioni sono sul piede di guerra, l’Aja striglia l’Italia per la condotta avuta nella vicenda: “La Corte ricorda il dovere di tutti gli Stati Parti di cooperare pienamente con la Corte nelle sue indagini e nei suoi procedimenti penali in materia di reati”, si legge in una nota in cui la CPI lamenta il rilascio “senza preavviso o consultazione” del ricercato. Nel frattempo, per giustificare la frittata, tutto l’esecutivo si è arroccato dietro alla decisione della Corte d’Appello: è colpa del cavillo giudiziario. Balle, la corte d’Appello, pur verificando “l’irritualità” dell’arresto, avrebbe potuto confermare la misura dando per buona l’interlocuzione con il ministero della giustizia. Interlocuzione che però non è arrivata in tempo. Ma la colpa non è solo di Nordio. “Al ministro consigliamo di non diventare la foglia di fico delle responsabilità politiche sul caso di questa scarcerazione”, ha detto in aula Riccardo Magi di +Europa durante le comunicazioni di Nordio sull’amministrazione della giustizia. Sulla graticola non c’è solo l’inerzia dimostrata dal Guardasigilli ma anche l’incomprensibile decisione del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di espellere (di corsa) il torturatore facendogli reperire un volo di Stato. Il jet, si scopre, era già a Torino, almeno sette ore prima del rilascio di Almasri. Chiamato a riferire al “question time” al Senato, il ministro Piantedosi si è giustificato dicendo che Almasri “è stato rilasciato per ragioni di urgenza e sicurezza, vista la pericolosità del soggetto”. In pratica: invece di impacchettare e consegnare un criminale efferato all’autorità dell’Aja che attendevano di processarlo, il ministro ha ritenuto più congeniale fargli trovare un volo di Stato, pagato con soldi pubblici, per riportarlo in Libia.
Il governo passa così dalla padella alla brace, con le proprie mani. Monta l’indignazione dei partiti di opposizione e l’ira delle ong che si occupano di migranti, sconvolte per il rilascio di un uomo responsabile di morti, torture e stupri, come riporta la Corte Penale Internazionale: “La Corte ritiene che i reati alla base del mandato di arresto sono stati commessi da Mr. Almasri personalmente, ordinati da lui o commessi con il suo aiuto da membri della Special Deterrence Forces, meglio conosciuta come Rada”. Omicidi, sevizie, rapimenti, violenze sessuali commessi sui migranti in Libia da febbraio 2015. Crimini di cui il generale libico non pagherà il conto (almeno per ora). Secondo le opposizioni la ragione del rilascio in tempo record di Almasri è squisitamente politica e nulla ha a che vedere con la panzana detta da Piantedosi al Senato. E’ evidente che consegnare Almasri alle autorità olandesi avrebbe compromesso il rapporto diplomatico con la Libia, alla quale l’Italia dà ingenti somme di denaro in cambio della repressione violenta dei flussi migratori. Il governo, in questo senso, ha dimostrato la sua ricattabilità verso Tripoli, dal quale dipende anche per le forniture energetiche. Quasi certamente, assecondare il mandato di cattura, avrebbe significato l’arrivo di migliaia e migliaia di migranti, appositamente rilasciati dalle carceri libiche. Una su tutte: la prigione di Mitiga, centro di detenzione cruciale nello scacchiere dei flussi migratori. Almasri è capo di questa prigione, dove i migranti fermati al confine libico vengono periodicamente vessati e stuprati. Ma Almasri, come detto, è anche capo della Rada, che a Tripoli ricopre un ruolo politico determinante: è una sorta di polizia privata e religiosa con il profilo di un’organizzazione mafiosa che si occupa ufficialmente di mantenere la sicurezza. Dopo l’omicidio di al-Bija, capo della guardia costiera libica e anch’egli trafficante di esseri umani, è soprattutto la Rada di Almasri a occuparsi del traffico di esseri umani, ma anche del traffico di droga e petrolio. La Rada, come dicono i magistrati italiani, aveva interessi conflittuali e sovrapposti con il gruppo di al-Bija (che godeva di buoni rapporti con le autorità italiane). Morto lui, il capo clan che controlla il traffico di esseri umani è diventato Almasri. Adesso sono i suoi uomini ad aprire e chiudere i rubinetti dei flussi. Sono loro a controllare le partenze in un sistema di corruzione e violenza. “Quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo perché vogliamo rompere questa tratta”, aveva detto Giorgia Meloni dopo la strage di Cutro. Le autorità italiane, per almeno quattro giorni, hanno avuto per le mani uno dei più grandi trafficanti libici. Un boia efferato. Il governo avrebbe potuto, a ragione, esporlo come trofeo davanti ad elettori e opposizione, invece ha pensato bene di non dire nulla e riportarlo a casa sua a spese dei contribuenti in un battito di ciglia. Il colmo dei colmi. Anche di questo le opposizioni chiedono conto alla presidente del Consiglio, convocata al question time questa settimana. Nel frattempo contro Palazzo Chigi, via Arenula e il Viminale è stata presentata una denuncia dall’avvocato Luigi Li Gotti per favoreggiamento. Nella denuncia presentata alla procura di Roma il legale del foro romano ha inserito anche il reato di peculato. Il motivo? Pare, afferma Li Gotti, che anche gli amici con cui Almasri era a Torino (sui quali però non pende un mandato dell’Aja) siano stati riportati in Libia ma a bordo di un altro volo di Stato.
Foto © Imagoeconomica
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