L’ampiezza dell’accezione semantica di sostenibilità è uno dei motivi del suo successo e pervasività, sia nell’opinione pubblica che nel percepito della sua rilevanza per le imprese. Al contempo, proprio tale ampiezza non aiuta a definire nel dettaglio cosa si intenda davvero per sostenibilità, anche in virtù del fatto che (pressoché in tutte le lingue, quantomeno quelle occidentali) la sua valenza è nel percepito comune sovente dominata dal riferimento alla sostenibilità ambientale (la “E” di Esg).
Se quest’ultima ha “dominato la scena” per decenni, rappresentando oggi un assunto consolidato e imprescindibile in ogni industry e ambito aziendale, che valenza effettiva ha invece nello specifico la sostenibilità sociale, la “S” di Esg e di CSR, per le aziende italiane?
Una ricerca di GPF Inspiring Research, condotta in esclusiva per Economy Magazine, ha voluto investigare esattamente questo aspetto: cosa si intende per sostenibilità sociale nel concreto, tra le aziende in Italia, nel management e nella cultura aziendale allargata, dalle medie imprese alla dimensione corporate? Attraverso una serie di interviste in profondità a responsabili Csr d’impresa e una rilevazione strutturata condotta su un campione di 200 profili aziendali pertinenti (Ceo, DG, Cfo, HR Manager e Sustainability Manager), si è voluto approfondire quali siano le scelte e le iniziative di sostenibilità etico-sociale più spesso intraprese, quelle di maggior appeal e le più efficaci per incrementare il percepito della reputation aziendale, e quanto tale incremento derivante da un’enfasi sulla sustainability paghi in termini di ritorni per l’azienda stessa. Più in generale, per utilizzare una perifrasi iperbolica… quanto paga “essere buoni”?
La bottom line della ricerca è che la sostenibilità sociale decisamente paga, con evidenze tali da rendere la domanda una cosa del passato; la vera domanda è quanto, e in cosa. I ritorni di una politica e cultura aziendale genuinamente orientate alla social responsibility (e non solo in termini di mera compliance) sono molteplici, impattando sia sul valore del brand che in termini di talent attraction, di consolidamento e mantenimento di un rapporto ottimale con stakeholder di rilievo, dalla filiera dei fornitori ai clienti.
Perché sia reale e credibile, la Social Sustainability richiede una reale dedizione e motivazione aziendale, che passa attraverso investimenti e un intervento serio sulla cultura aziendale; l’effetto poi si moltiplica quanto meglio si riesce a trasferire, con semplicità e trasparenza, la messa a terra delle azioni in modo concreto verso tutta la value chain. Isabella Manfredi, Direttore Comunicazione e Relazioni Esterne, Sustainability Manager di Feralpi Group, sottolinea come «per costruire una buona reputazione ed essere credibili su questo ambito occorrono anni di lavoro: la sostenibilità non può crearsi dal nulla; sono i clienti e fornitori a riconoscerci il valore della sostenibilità a 360°», una sostenibilità che transita attraverso step importanti come «l’ascolto dei dipendenti in piena trasparenza; l’arricchire realmente la cultura aziendale con iniziative di diversity inclusion & human rights, il che significa dedicare budget e concepire processi nuovi» su tutte le subsidiaries del gruppo.
Le associazioni spontanee con “social sustainability” nella nostra rilevazione strutturata restituiscono un quadro in cui dominano i riferimenti al welfare, equità e all’equilibrio dei diritti, benessere dei dipendenti, della filiera, fino a investire gli ambiti del benessere sociale tout court e un reale impatto per la società.
La prospettiva degli intervistati restituisce concetti quali il “garantire gli stessi diritti a tutti i lavoratori, senza distinzioni di classe, genere, età, etnia”, interventi tesi al “benessere delle persone e della comunità, verso una società più equa e inclusiva”, “scelte aziendali che mantengano il dipendente realmente al centro”, pur “in un corretto equilibrio tra interessi aziendali e benessere dei dipendenti”. Minoritari sono i riferimenti all’“attenersi ai criteri delle necessarie certificazioni”.
La gerarchia di pratiche di sostenibilità sociale che le aziende dovrebbero effettivamente applicare vede in primis agli ambiti più direttamente afferenti alla forza lavoro, come la promozione di pratiche di lavoro eque (in particolare il “lavoro dignitoso e il miglioramento degli standard di vita”, secondo quasi 6 intervistati su 10) e le iniziative tese a garantire flessibilità per i dipendenti (dagli orari flessibili allo smart working). Dopo tali elementi “core”, il focus si sposta su tematiche più macro come l’adozione di politiche sui diritti umani, la riduzione delle povertà, il contributo a una maggior equità sociale (grafico 1).
In prima lettura, anche i vantaggi per l’azienda virtuosa in termini di pratiche CSR vengono soprattutto associati al comparto dei dipendenti (per es. un posto di lavoro dignitoso, con servizi soddisfacenti e inclusione sociale); si nota però che circa un terzo delle risposte (all’interno della “top 3” personale di ciascun rispondente) afferisce a ritorni concreti per l’azienda in quanto tale, in termini di aumento della produttività, innovazione, facilità ad attrarre nuovi partner commerciali, sbloccare nuovi mercati (grafico 2).
A parere degli stakeholder coinvolti nella ricerca “è questo il punto principale: l’applicazione di strategie di successo di sostenibilità sociale crea una situazione tipica win-win, o meglio una situazione ‘a molteplici win’: ne guadagna l’azienda in quanto tale, i suoi dipendenti come singole persone, l’ecosistema degli stakeholder di riferimento, la società”.
Vengono principalmente individuate tre dimensioni di tale dinamica win-win:
• la prima è la talent acquisition: “un sincero, palese investimento nella sostenibilità etico-sociale è ormai un pre-requisito per avere una forza attrattiva nei confronti di talenti, che sempre più danno per scontate e richiedono dinamiche inclusive, di rispetto per l’etica sociale, sia quando scelgono un prodotto o servizio da acquistare, un marchio adottare, un’azienda a cui inviare un CV”;
• la seconda è quella dell’impatto “a monte”, sulla filiera: se un’azienda investe seriamente nella S di Social, pone in essere un effetto pervasivo in grado di “risalire la corrente” della filiera, “stimolando i propri fornitori a rinnovarsi a propria volta, in termini per esempio di circular economy e adozione di politiche efficaci per i propri dipendenti: si va a replicare il processo virtuoso dell’azienda ‘madre’ che l’ha ispirata, in un circolo virtuoso di adozione di nuove dinamiche innovative, che va a generare un ulteriore effetto win win”;
• la terza è quella dell’impatto “a valle”, in primis sui clienti, e naturalmente il macro-effetto sulla società nel suo complesso. Sempre più, “i grandi committenti richiedono di avere partner che abbiano una filiera tracciata, dal punto di vista del minor impatto non solo ambientale ma sempre di più sociale”. Come nel caso dei young talent notoriamente sensibili alle tematiche etico-sociali, “anche i clienti, in particolare quelli strutturati, sempre più considerano come un pre-requisito una compliance vera, e non solo una di mero rispetto di facciata per gli obblighi di Csr”.
A fronte di tali prospettive, e rispetto in particolare alle iniziative di sostenibilità sociale che idealmente un’azienda dovrebbe intraprendere, qual è lo stato dell’arte effettivo e concreto delle imprese italiane? Qual è il grado di sensibilità e di effettiva applicazione della social responsibility?
Dalla ricerca emerge un quadro sicuramente incoraggiante, pur se tuttora “nel guado” verso un’ancora più completa consapevolezza della forza e dei vantaggi ad ampio raggio presentati dalla sostenibilità.
Entrambi i dati riportati nei grafici 3 e 4, relativi rispettivamente all’enfasi/attenzione aziendale (“alta” per quasi il 62% del campione) e all’effettiva applicazione di iniziative di Csr (dove, a diversi livelli, oltre il 90% delle aziende interpellate risultano applicarne quantomeno alcune) restituiscono un quadro di grande diffusione sia della pratica che della sensibilità al riguardo.
Dai grafici 5 e 6 notiamo come, a fronte di un’attenzione quasi ecumenica alle questioni e condizioni relative ai dipendenti, vi sia una forte enfasi sullo sviluppo delle comunità locali (per quasi i 2/3) e a relazioni commerciali responsabili. Le motivazioni che effettivamente hanno spinto le aziende coinvolte nella ricerca ad adottare pratiche virtuose di responsabilità sociale sono non dissimili rispetto a quelle considerate ideali (v. dati precedenti), con un ottimo dato sulla motivazione etica in sé, che –pur se di misura– batte la seconda voce relativa all’aumento di motivazione interna e accresciuta retention. Le aspettative dei clienti si pongono al terzo posto, sempre su valori alti.
Per quanto attiene in particolare ad ambiti specifici relativi allo sviluppo delle comunità, le aziende si impegnano a sostenere lo sviluppo economico locale, promuovendo programmi e iniziative di istruzione, cultura, di mentorship e condivisione delle conoscenze (grafico 7).
La minoranza di aziende che hanno dichiarato di non mettere in atto pratiche di sostenibilità etico-sociale, pur con il vulnus di un dato su base statistica contenuta (il che è di fatto un buon segno, corrispondendo a poche aziende “non compliant” nel campione) lamentano principalmente fattori di stampo economico: assenza di programmi di sostegno e mancanza in generale di risorse finanziarie (grafico 8).
Più in generale, e qui includendo anche le aziende che già mettono in atto strategie di CSR concrete, vengono auspicati esempi condivisi di buone pratiche che si sono rivelati di successo per altre imprese, risorse umane suppletive, e – intuibilmente – finanziamenti supplementari, nonché maggiori conoscenze informative sul come integrare la sostenibilità nelle attività di business (grafico 9).
In termini diacronici (rispetto a qualche anno fa) e prospettici (in termini di evoluzione futura), viene sottolineato dagli stakeholder coinvolti come l’enfasi sulla sostenibilità sociale sia una tendenza endogena, spontanea e in ottima salute, anche – e soprattutto nel nostro “vecchio continente”.
Secondo gli stakeholder, stiamo infatti “vivendo un momento di grandissima transizione, perché le aziende si sentono davvero protagoniste di un cambiamento, in cui rivestono – e tutti noi rivestiamo, soprattutto in Europa – un ruolo di guida, al di là e persino a prescindere delle normative in vigore, che pur danno un grande stimolo”. In questo, “non dimentichiamo l’apporto delle nuove tecnologie: la digitalizzazione in generale e la stessa Intelligenza Artificiale, che non deve esser vista in antitesi, ma a supporto di una maggiore enfasi verso una reale sostenibilità etico-sociale”. Questo ci consentirà nel complesso di avere “catene di valore più forti e resilienti”, nella direzione di una cultura diffusa della sostenibilità che si ponga in un’osmosi tra l’ambito della cultura aziendale e sociale nel suo insieme.
Tale prospettiva viene solidamente confermata dai propositi delle aziende coinvolte nella ricerca, una cui fetta superiore all’80% intende aumentare gli investimenti e l’impegno in Csr, a fronte di poco meno di un sesto (il 15,8%) che esprime l’obiettivo di consolidare gli investimenti fatti e appena un 3% che sostiene di volerli ridurre (grafico 10).
La strada verso un’ancora maggior sostenibilità sociale per le aziende passa attraverso politiche che incentivino la creazione di posti di lavoro adeguati, garantendo sicurezza, diversità ed equilibrio tra lavoro e vita privata, nella direzione di un benessere diffuso innanzitutto relativo ai dipendenti e del comparto sociale nel suo insieme (grafico 11).
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